- Jonathan Davis - voce, cornamusa
- Head - chitarra, voce
- Munky - chitarra
- Fieldy - basso
- David Silveria - batteria
Guest:
- Judith Kiener - voce in Daddy
1. Blind (04:19)
2. Ball Tongue (04:29)
3. Need To (04:01)
4. Clown (04:37)
5. Divine (02:51)
6. Faget (05:49)
7. Shoots and Ladders (05:22)
8. Predictable (04:32)
9. Fake (04:51)
10. Lies (03:22)
11. Helmet in the Bush (04:02)
12. Daddy (+ Hidden Track) (17:31)
Korn
Il chitarrista James Christian "Munky" Shaffer, il batterista David Silveria e il bassista Reginald Quincy "Fieldy" Arvizu, californiani di Bakersfield, suonavano negli L.A.P.D., band alternative-rock.
Jonathan Davis, cresciuto a musica classica in un quartiere estremamente conservatore (Huntington Beach, contea di Los Angeles), era invece un giovane coroner di professione, e cantava a tempo perso nel mediocre complesso dei Sexart.
Dopo aver formato una nuova band con il nome Creep, prendendo anche il secondo chitarrista Brian Phillip "Head" Welch, i primi tre chiedono a Davis di entrare nel progetto, e il cantante, all'inizio non del tutto convinto, accetta. Passa poco tempo prima che vengano notati dall'allora esordiente produttore Ross Robinson, incontro che porterà alla fama entrambi.
Il gruppo cambia nome in Korn (per via di una storia a sfondo omopornografico che aveva sentito Davis da qualche parte) per registrare il lavoro di debutto, ed esce così il loro album omonimo.
Il disco è uno dei più importanti della sua decade, e fonda un nuovo modo di concepire la musica metal, chiamato poco dopo dai critici, forse un po' a corto di idee, "nu-metal" (inizialmente da alcuni anche "post-metal", termine poi passato a definire il sound di Neurosis e discepoli); e nu-metal saranno etichettate tutte le band che da qui in poi si rifaranno alle sonorità di questo album, o comunque al crossover più pesante (solo per citare i più popolari tra i primi seguaci: Deftones, Limp Bizkit, Coal Chamber, System of a Down, Static-X, Slipknot, Mudvayne, Papa Roach, ma anche gli stessi Machine Head di The Burning Red, i Sepultura di Roots e poi i Soulfly).
I Korn si dimostrano dei maestri nel prendere gli stilemi più innovativi dei vari artisti metal e sperimentali che li affascinano: le chitarre scordate e abbassate lanciate in riff panzer come gli Helmet, il groove-metal delineato dagli esperimenti di Pantera, Machine Head e Sepultura, le distorsioni alienanti e industriali di Ministry e Nine Inch Nails, la furia crossover-hardcore dei Rage Against the Machine, le cadenze ritmiche tipiche del funk se non dell'hip-hop, il grunge più punk e nichilista dei Nirvana, i micidiali colpi di basso dei Primus più violenti e distorti, e una spruzzata di estremismi che vanno da riff vicini al death-metal in stile Morbid Angel (quelli di Covenant soprattutto) ad alcuni vocalizzi che sfiorano il grindcore, riuscendoli a mescolare in una forma musicale incredibilmente omogenea e personale.
La genialità sta nel fatto che i Korn non si limitino ad un collage, ma riescano di fatto a creare una fusione unica e indistinguibile reinterpretando il tutto in maniera altamente coerente, sentita e introspettiva. In questo nuovo stile, i suoni diventano bassissimi, opprimenti, pesanti, i ritmi non sono sparati a mille ma prevalentemente cadenzati con violenza micidiale, e la sensazione è quella di un carro armato che sfonda tutto ciò che trova sulla propria strada grazie ad una furia psicologica, ancor più che fisica, densa di disperazione e rancore.
La differenza maggiore in tutto questo la fa Jonathan Davis, che si dimostra vocalist eclettico ed inquietante, capace di inventare un inedito stile di canto che alterna timidi sussurri, grida laceranti, crooning da oltretomba, scat in stile jazz (ma distorto in modi da incubo), flebili melodie da lullaby, devastanti esplosioni di petto, timbriche imprevedibili; i suoi testi costruiscono inoltre l'anima e in un certo senso la "mitologia" del gruppo: Davis utilizza difatti le liriche per sfogarsi di tutte le atrocità e le violenze mentali e fisiche subìte durante la sua infanzia e adolescenza, riuscendo a comunicare una rabbia e un male interiore sinceri e crudeli, senza lasciare alcun dubbio sull'origine autobiografica o semi-autobiografica delle vicende scatenanti.
Il disco inizia con la disperata opener Blind, il primo singolo e dunque sostanzialmente l'inno fondante della nuova corrente musicale, dalla struttura lineare ma lontana dai classici cliché (ad esempio il chorus compare una sola volta), con un'intro in crescendo (il cui tintinnare del ride sembra citare l'incipit di Too Many Puppies dei Primus, pezzo influente sul sound dei Korn per le esplosioni distorte di basso e chitarra) che esplode al grido "Are you ready?", domanda simbolicamente rivolta a tutti coloro che per la prima volta si mettono all'ascolto del disco, un particolare drumming dai colpi di snare imprevedibili che resterà una delle costanti lungo l'album, e un riff schiacciasassi che diventerà uno dei più plagiati negli anni a seguire.
Nella trascinante Ball Tongue, Davis sputa le parole in uno stile cantato che riprende lo scat tipico del jazz per distorcerlo mostruosamente, trasformandolo in una sequela di crisi epilettiche e ruggiti animaleschi, mentre il tappeto sonoro verso metà lascia spazio a una trascinata base frusciante come un vinile hip-hop, per poi tornare e finire in una coda che aggiunge dei colpi di spranga di ferro al ritmo; si fa ora anche davvero notare il ruvido e innovativo talento del grande bassista Fieldy, sorta di ibrido tra un Les Claypool dell'oltretomba e un Bill Gould in preda alle convulsioni.
Need To sembra voler cancellare a colpi di distorsioni gli accenni di melodia che essa stessa crea, in un conflitto schizofrenico che diventa violenza catartica, per un altro tappeto sonoro che fa da sostegno alla folle voce di Jonathan; nel marasma si eleva ancora il maestoso basso di Fieldy, colpito a velocità killer.
Lo psicodramma Clown prosegue la strada della violenza generata dalla violenza; dopo un'intro ironica costituita da un "fuori onda" della band durante le registrazioni, Davis spara in faccia all'ascoltatore una denuncia ai teppisti tatuati che a scuola lo picchiavano e ridicolizzavano a causa della sua diversità ("What's with you boy? Think hard / a tattooed body to hide who you are / scared to be honest, be yourself / a cowardly man"), sopra a delle progressioni chitarristiche che prendono la lezione dei Nirvana e la aggiornano in maniera tetra e gotica, sposandola magnificamente al digrignare tra i denti la melodia del chorus da parte di Davis.
Divine si riallaccia più delle altre alla tradizione crossover, ma trasfigurandola attraverso un'implacabile carica di violenza psicotica.
Faget prende evidenti spunti dalle cadenze industriali di Ministry e Nine Inch Nails, già nell'iniziale minaccioso riff su base percussiva, per evolversi in uno dei vertici assoluti del rancore di Jonathan Davis, che ricorda il dispregiativo soprannome datogli da ragazzo ("faget" appunto); la composizione standardizza anche un tipico stile di climax emotivo e sonoro (che torna due volte, esplodendo prima alla frase "You can suck my dick and fucking like it!" e poi alla frase "All my life, who am I?") che, sebbene derivi evidentemente dai Rage Against the Machine, verrà tuttavia copiato da decine di band successive in maniera più affine a questa forma.
Shoots and Ladders sfodera un altro capolavoro: dopo un'intro alla cornamusa suonata da Jonathan stesso (che ha origini scozzesi ed è sin dall'infanzia un appassionato dello strumento), un paranoico e inquietante tappeto di stecche chitarristiche accompagna i versi del cantante, che sono tutti delle "nursery rhymes", con l'effetto di tramutare una canzone in una seduta psicanalitica, tesa a far riaffiorare il lato orribile e demoniaco dell'infanzia, sepolto negli abissi del subconscio.
La potenza rockeggiante della trascinante Predictable e il cantato tra i denti di Fake riprendono la lezione del crossover alla Faith No More, ma la sviluppano in maniera drammatica e apocalittica, mentre Lies raggiunge forse l'apice della violenza metal dell'album, accompagnata da un testo ancora una volta allo stesso tempo introspettivo e furente, con le voci di Davis e Head unite simultaneamente nell'urlo "Do you ever see outside your fears? Thinking about your life, thinking about your inner fears".
Si passa così alla freddezza del synth-rock di Helmet in the Bush, in cui la batteria è elettronica, per poi giungere al massimo capolavoro dell'album, Daddy, un lungo psicodramma in cui Davis racconta l'orrore della violenza sessuale sui minori, dal suo punto di vista di vittima ora adulta (pare infatti che la storia abbia radici autobiografiche, come del resto anche le altre inquietudini narrate nei testi), interpretando con la propria voce sia la personalità perversa dell'aggressore sia quella straziata della vittima; un viaggio nel trauma psicologico che si eleva a religiosità deviata (l'introduzione liturgica), a schizofrenia (il canto a più personalità di Davis), a frustrazione e complessi edipici (la donna che canta una ninna-nanna in sottofondo), fino a sfociare in un finale spiazzante in cui la band improvvisa mentre Davis dapprima urla soffocato dalle lacrime, e poi se ne va sbattendo la porta dello studio di registrazione. Forse la canzone più psicologicamente sconvolgente della sua decade, Daddy aggiorna alla propria epoca la tradizione dello psicodramma musicale, tracciando un filo rosso con i The Doors di The End, e i Suicide di Frankie Teardrop.
Dopo un lungo silenzio, il punto finale è dato da una traccia nascosta che contiene un grottesco dialogo tra un uomo e una donna.
Di tutti i gruppi che modelleranno il loro sound su questo (e sui successivi) album della band, nessuno riuscirà a replicare un cantato così versatile ed emotivo, né un basso così caratteristico ed in primo piano, né delle tematiche così intime e profonde. Per questo motivo, i Korn riusciranno ad incarnare lo spirito di un'intera generazione di adolescenti, quella nata sulle ceneri del grunge, e non ad essere solo una meteora, o una colonna sonora da autoradio, come invece si riveleranno molti dei loro emuli.