- Stephen Richards - voce, chitarra
- Mike DeWolf - chitarra
- Phil Lipscomb - basso
- Nick Fredell - batteria
1. Now Rise - 3:26
2. Game Over - 3:29
3. Fractured (Everything I Said Was True) - 3:16
4. Release Me - 4:33
5. Stolage - 3:38
6. 911ost - 3:07
7. Trophy WiFi - 3:49
8. Words Don't Mean A Thing - 3:28
9. Left Behind - 3:42
10. No View Is True - 3:38
11. Stares - 4:11
Plead the Fifth
Plead the Fifth, prima release dei Taproot per la label Victory e prima release con alle pelli il nuovo drummer Nick Fredell, viene annunciato dal chitarrista Mike DeWolf come un ritorno allo stile di Gift e Welcome; se ciò può forse essere vero per l'approccio chitarristico più heavy rispetto a Our Long Road Home, non vale lo stesso per l'ispirazione delle melodie, la personalità, la capacità di suonare al passo con i tempi, e nemmeno la produzione (che sembra spaventata dal suonare troppo heavy, frenando ogni eccesso sonoro).
Mai come nell'opener Now Rise, i Taproot sono suonati semplicemente come una pallida e smaccata imitazione dei Deftones più heavy, dalla struttura del pezzo alle parti di chitarra all'uso della voce, ma andando avanti con le tracce si scopre che questo resta addirittura uno dei momenti migliori del lavoro.
Game Over e Fractured (Everything I Said Was True) sono power-ballad non ispirate che tentano di scuotere se stesse con qualche sprazzo sonoro nu-metal, Release Me è una versione leggermente più heavy del tipico post-grunge da classifica alla Creed.
911ost e Trophy WiFi sono un rimasticamento di pezzi del passato come So Eager e Lost in the Woods, ma senza lo stesso entusiasmo e la stessa freschezza melodica.
Gli eccessi catchy e melodrammatici delle melodie vocali fanno sembrare Left Behind e No View Is True come episodi usciti dal repertorio dei Breaking Benjamin (non è un complimento), stessa formula anche di Words Don't Mean a Thing, che riesce tuttavia a produrre un chorus abbastanza accattivante senza essere pomposo e corrivo, a differenza delle altre due.
Nelle dilatazioni distorte della finale Stares, con sovrapposizioni di chitarre acustiche e riverberi vocali, risiede forse l'unico momento in cui i quattro tentano effettivamente di fare musica come nel passato, e non di assemblare motivetti pretestuosi pensando a quanto piacerebbero ai teenager.
Quella che nei loro dischi migliori era una fresca e interessante combinazione di nu-metal ed emo-core, ricercante una certa profondità emotiva e rifinita negli arrangiamenti in post-produzione, è ora divenuta solamente la scusa per spingersi verso le sonorità più radiofoniche e plasticose in voga nelle chart (e perfino in ritardo rispetto a molti altri): Plead the Fifth è dunque nella sostanza non un "ritorno" a Gift e Welcome, ma rappresenta invece l'appiattimento, la commercializzazione e la banalizzazione della formula sonora tipica di quegli album.
Un ulteriore passo indietro, non certo avanti, per una band un tempo capace di uscite interessanti, e che ora a quanto pare si è invece auto-declassata preferendo assimilarsi alla categoria dei vari Breaking Benjamin, Staind, Nickelback e affini. Un percorso, insomma, che replica le precedenti parabole in discesa di Chevelle e 30 Seconds to Mars.