- Alex Turner – Voce, chitarra
- Jamie Cook – Chitarra
- Nick O'Malley – Basso, cori
- Matt Helders – Batteria, cori, voce sulla traccia #3
Guests:
- Josh Homme – Cori sulla traccia #7
01. She's Thunderstorms
02. Black Treacle
03. Brick by Brick
04. The Hellcat Spangled Shalalala
05. Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair
06. Library Pictures
07. All My Own Stunts
08. Reckless Serenade
09. Piledriver Waltz
10. Love is a Laserquest
11. Suck It and See
12. That's Were You're Wrong
Suck It and See
Fomentiamo subito ogni dubbio di stravolgere pareri su dischi che già dalla copertina non sembrano aver nulla da dire solo per far ricordare il proprio nome: il nuovo disco degli Arctic Monkeys è insipido, forse poco più gradevole di quel risottino alle zucchine di ieri sera. Tutto questo per far uscire allo scoperto il disgusto che provo nel vedere sopravvalutato sempre, e dico sempre, tutto ciò che suona pop (anche se in verità lo è solo in minima parte alla fine). Sul serio, ma perché dovrei esaltare un album ruffiano come Suck It and See, inciso da una (rock) band che con Whatever People Say I Am, That's What I'm Not suonando rock vendette più di un milione di copie in otto giorni, che continuò suonando rock in Favourite Worst Nightmare e che trovo la sua evoluzione naturale in Humbug ( per chi scrive, uno dei migliori album indie di sempre) suonando in maniera più raffinata, ma sempre rock? Credo, invece, che la verità sia un' altra.
Ovvero che Alex Turner, in un modo di ragionare che potremo definire piuttosto à la Casablancas, abbia preferito sbizzarrirsi con l'EP Submarine, inciso per fare da soundtrack al film omonimo, un vero e proprio mix tra acustica e cantautorato d' albione legati da arrangiamenti sopraffini, per poi suonare con gli altri tre suoi compagni di band una sorta di spin-off di quest' ultimo. Suck It and See è tutto ciò che non doveva essere, ovvero un disco piacevole che si lascia ascoltare con estrema facilità: gli Arctic Monkeys in mano al music business. Quaranta minuti di finto rock, dove nessuna suda, nessuna pesta il piede o batte le mani, ma tutto si limita a quei due-tre pezzi riusciti meglio degli altri che, inevitabilmente, alzeranno il tenore del lavoro. Inspiegabilmente troppo corretti, perfettini nelle melodie scopiazzate da un pò tutti i precedenti gli album, tra cui spopolano le ballate di Humbug (e dire che nel 2009 molti avevano criticato la produzione di Josh Homme, che a mio avviso aveva dato un' espressività alle chitarre davvero notevole) qui riversate in brani dalla struttura stilizzata e troppo debole per essere credibile (All My Stunts ne è un esempio più che concreto) ed ovvietà imbarazzanti di accordi dal sapore radiofonico (Brick by Brick). Ma ciò che spiazza in modo particolare, è la voce di Alex Turner, monotona e sempre sulle stesse comode note, come se ci volesse dire che dopo aver sfornato brani del genere di Cornerstone e Secret Door adesso proverà ad ottenere lo stesso risultato con altre mille b-side nuove (Piledriver Waltz e Love is a Laserquest preoccupano per la debolezza sonora dell' ensamble). Riflettendo sulla tracklist, ci si accorge dell' evidente mossa strategica - questa sì tipica del pop - di piazzare addirittura ben dodici hit che faranno a cazzotti per entrare a turno in heavy rotation, sconvolgendo una propria mentalità che forse adesso si scopre anche forzatamente autoimposta, una sorta di chimera ormai impossibile da raggiungere.
Le cose vanno di poco meglio quando, tra una pietosa The Hellcat Spangled Shalalala ed una title-track che pare incisa più per far risaltare all' occhio il doppio senso (giustamente censurato negli Stati Uniti) che esprimere qualcosa in termini musicali, si fanno avanti i due pezzi più tipici degli Arctic Monkeys, ovvero Don't Sit Down 'Cause I've Moved Your Chair e Library Pictures, praticamente due stampi del disco d' esordio, il primo accentuato da un tiro più classic rock (con quei chitarroni tanto britrock) e l' altro da bassi dal mood spigoloso (ogni riferimento a Certain Romance è puramente casuale). Il resto, come detto, è affidato a coretti, voci pulite e attacchi già sentiti (quello di She's Thunderstorms in primis) che al massimo possono elevare gli Arctic Monkeys al pari di nomi come Beady Eye ( gli ex-Oasis, per chi se ne fosse già dimenticato) e Miles Kane (la figurina uguale spiccicata a Turner, nonché compagno nei Last Shadow Puppets), tanto che sembrano essersi divertiti a far uscire tre dischi ugualmente anonimi per idee e melodie nello stesso periodo. Magari loro ci rideranno sù, godendosi il lusso acquisito grazie alle perle precedenti, ma noi, senza voler mettere nessun bastone tra le ruote, consigliamo di stare attenti al rischio estinzione.