Liam Gallagher – vocals
Noel Gallagher – vocals, lead guitar
Gem Archer – rhythm guitar
Andy Bell – bass
Chris Sharrock – drums
1. Bag It Up
2. The Turning
3. Waiting For The Rapture
4. The Shock Of The Lightning
5. I’m Outta Time
6. (Get Off Your) High Horse Lady
7. Falling Down
8. To Be Where There’s Life
9. Ain’t Got Nothin’
10. The Nature Of Reality
11. Soldier On
12. I Believe in All
Dig Out Your Soul
Ci sono titoli assolutamente insulsi che, trascurando l’inutile dettaglio di avere un’omonima track, non presentano alcun significato: non è questo il caso dell’ultimo lavoro degli Oasis, principi mai detronizzati del rock britannico. Dig out your soul è infatti molto di più d’una sciocca frase da copertina, molto più d’una finta sintesi filosofica, molto più d’semplice estratto di testo del chitarrista “Gem” Archer: è una divertita e accorata esortazione della quale la band dei fratelli Gallagher forniscono, con le 12 tracce che compongono il loro 7 lavoro di inediti, il più lampante degli esempi. Per la prima volta dall’inizio della carriera gli Oasis rinunciano a tutti gli elementi ascrivibili al dominio del pop e costruiscono un album complesso, stratificato, estremamente ragionato dal punto di vista musicale, che certo non può dirsi né immediato né scontato. Molto spesso capita di abusare, con un pizzico di pietosa concessione, del termine “maturità”: nel caso specifico di Dig out your soul, mai vocabolo potrebbe essere più appropriato.
Al primo ascolto, generalmente distratto o comunque poco incline a ravvisare gli aspetti meno evidenti di una proposta musicale, questa settima fatica della band di Manchester risulta quasi deludente: non ci sono ritornelli orecchiabili, mancano melodie facilmente memorizzabili, il suono non è nitido e scorrevole come ci si potrebbe aspettare dagli autori di Definitely maybe e What’s the story morning glory, capolavori assoluti del famigerato brit-pop. E’ impresa indubbiamente ardua assimilare in breve tempo un disco così diabolicamente studiato in tutte le sue raffinatezze sonore e strumentali, ma, con la necessaria pazienza e un gradimento sempre crescente, non si può che rimanere assolutamente appagati da un lavoro che, come dichiarato dallo stesso Big Brother Noel Gallagher, è rock con chiare influenze psichedeliche. Pur essendo io stesso un fan storico degli Oasis, non esito a credere che molti dei loro più integerrimi (e superficiali) sostenitori finiranno per criticare aspramente questo lavoro, nonostante il suo notevole spessore artistico; al contrario, molto di coloro che in passato si sono spesi in accuse sperticate e spesso immotivate saranno attirati da un prodotto dal così basso appeal commerciale (non fosse per l’ormai imperitura fama dei Gallagher, difficilmente Dig out your soul susciterebbe l’interesse delle masse) e non faticheranno ad ammettere di essersi ricreduti.
Osservando con doverosa attenzione la carriera dei Gallagher, non si tratta di una svolta totalmente inattesa. Già con Be here now, sfortunato episodio che la band non perde occasione di rinnegare (ingiustamente, a mio avviso), il songwriting di Noel aveva introdotto elementi che Dig out you soul riprende e, ovviamente, migliora, come la lunghezza dei brani e la sovrapposizione di numerosi soggetti musicali (tra i quali, l’adozione massiccia del synth e della più generale strumentazione elettronica): se il wall of sound del lontano 1998 rischiava di essere alle volte confuso e fastidioso, quello di una decade dopo è assolutamente ben organizzato ed ogni singolo elemento partecipa in maniera coerente e puntuale a creare una precisa atmosfera, la cui ripetitività e le cui distorsioni sono certamente da imputarsi ad un’evidente volontà di psichedelia; allo stesso modo, le tracce di quest’ultimo lavoro non si producono in superflui e noiosi prolungamenti pur di aumentare in maniera esponenziale il loro minutaggio, caratteristica che il più delle volte indisponeva all’ascolto di brani pur sempre validi quali D’you know what I mean o All around the world, ma aprono e soprattutto chiudono con sezioni strumentali ragionate ed assolutamente ben fatte (The turning, la stessa The shock of lighting).
Dal punto di vista prettamente strumentale, inoltre, gli Oasis recuperano gran parte delle caratteristiche già introdotte da Heathen chemistry, soprattutto per l’impostazione della batteria e l’utilizzo pressoché costante dei piatti, e da Don’t believe the truth, che, alla luce del capitolo successivo, deve indubbiamente essere rivalutato: riff brucianti, schitarrate potenti e mai usurate, stilemi vocali ormai consolidati ma tirati perfettamente a lucido (spaventosi i miglioramenti delle capacità interpretative di Noel nella psico-folk High horse lady o nella cadenzata Waiting for the rapture, che ricorda molto da vicino The importance of being idle; mai così graffianti gli strascichi vocali di Liam nella vigorosa Bag it up, che inizialmente avrebbe dovuto essere anche il titolo dell’album, o nell’ottimo singolo The shock of lighting), senza tralasciare l’utilizzo mai banale degli strumenti acustici, essenzialmente chitarra e pianoforte (si pensi alla suggestiva I’m outta time, che si spegne con un delizioso omaggio “campionato” al mito John Lennon, o alle soffici tastiere di The turning) ma anche gli enigmatici tamburelli, già ampiamente sfruttati proprio in Heathen chemistry (altro album spesso e giustamente criticato, non fosse per quei 2 gioielli tipicamente d’oltremanica che sono Little by little e Stop cryin’ you heart out).
Buona parte di questi evidenti miglioramenti nel songwriting sono senz’altro frutto della presa di coscienza, già ravvisabile all’epoca di Don’t believe the truth, dell’insostenibile carico di lavoro che gravava sulle spalle del povero Noel: dal 2003, a seguito dello scarso successo di critica proprio di Heathen chemistry, gli Oasis hanno trasformato la fase di scrittura dei pezzi in un lavoro corale che non soltanto ha eliminato le fastidiose faide interne che molto spesso li facevano figurare sulle ben poco invidiabili copertine dei rotocalchi scandalistici, ma ha senza dubbio migliorato l’interazione dei singoli strumentisti sia in sede di registrazione che sul palco. Che il chitarrista Gem e il bassista Andy Bell non fossero esattamente 2 sprovveduti lo si sapeva già prima che si cimentassero con gli Oasis, però è stata indubbiamente una lieta sorpresa dover ammettere anche le buone capacità di scrittura di Liam che, in quest’ultimo Dig out your soul, risultano notevolmente maturate e raffinate. A questo va aggiunto, finalmente, anche il contributo di Zak Starkey alla batteria: il figlio dell’indimenticabile Ringo Starr non soltanto si è rivelato un ottimo esecutore durante le esibizioni live, ma è pure riuscito a costruire delle validissime tracce di drumming per quest’ultimo inedito lavoro, secche, potenti e precise allo stesso tempo. Resta da capire per quale ragione Starkey abbia lasciato la band, o sia stato “invitato” a farlo, proprio in occasione del prossimo tour promozionale di Dig out your soul, occasione nella quale avrebbe potuto suonare al meglio i suoi stessi pezzi: sta di fatto, comunque, che per l’ennesima volta, dopo i trionfali esordi con Tony McCarroll (1991-1995), l’improvvisa e giusta cacciata di Alan White (1995-2004) e la breve ma proficua parentesi del figlio d’arte di Ringo (2004-2008), gli Oasis si ritrovano oggi con un quarto nuovo drummer in line-up, quel Chris Sharrock supporter fino a poco tempo fa dell’acerrimo nemico Robbie Williams.
Nonostante tutto, un difetto palese e difficilmente perdonabile di Dig out your soul è la compilazione della tracklist: se, infatti, la prima metà dei pezzi è da urlo, con la dirompente Bag it up (confronto assolutamente impietoso per The hindu times), la trascinante The turning (elementare ma allo stesso tempo geniale l’assolo alla chitarra di Noel), la psicotica e recitativa Waiting for the rupture (con una buona prestazione al basso da parte di Bell ed un inatteso ma apprezzabile sottofondo finale al sapore di sax), la brillantissima The shock of lightning e l’aurea I’m outta time, nella seconda metà l’album si adagia su pezzi ahimè piuttosto monotoni e incolore (To be where there’s life, assolutamente monocorde; High horse lady, nonostante la suadente prestazione di Noel al microfono; Ain’t nothing, la cui brevità è proprio la sua miglior caratteristica), provvidenzialmente salvati prima dall’entusiasmante melodia di Falling down, poi dal pesante incedere marziale di The nature of reality. Fortunatamente, però, l’album chiude sugli stessi ottimi livelli di com’era cominciato: le timbriche distorte e quasi (volutamente) cacofoniche di Liam nonché l’interessante effetto eco che la accompagna (ennesimo elemento psichedelico) tratteggiano la cupa ballad Soldier on, cui segue il più classico e spumeggiante rock’n’roll di I believe in all, con le acide schitarrate di Noel a ribadire ancora una volta che gli Oasis non sono soltanto il passato ma anche il futuro del rock internazionale.