Chester Bennington – vocals
Rob Bourdon – drums, percussion
Brad Delson – lead guitar
Dave "Phoenix" Farrell – bass guitar
Joe Hahn – turntables, sampling, programming
Mike Shinoda – vocals, rhythm guitar, keyboards
Guests:
Page Hamilton - vocals (on "All for Nothing")
Daron Malakian - guitar (on "Rebellion")
Tom Morello - guitar (on "Drawbar")
Rakim - vocals (on "Guilty All the Same")
1. Keys to the Kingdom – 3:38
2. All for Nothing (feat. Page Hamilton) – 3:33
3. Guilty All the Same (feat. Rakim) – 5:55
4. The Summoning – 1:00
5. War – 2:11
6. Wastelands – 3:15
7. Until It's Gone – 3:53
8. Rebellion (feat. Daron Malakian) – 3:44
9. Mark the Graves – 5:05
10. Drawbar (feat. Tom Morello) – 2:46
11. Final Masquerade – 3:37
12. A Line in the Sand – 6:35
The Hunting Party
“Oh m***a, le radio rock non passeranno più le nostre canzoni, non è vero?”. È questa una delle domande che Mike Shinoda, la mente dei Linkin Park, ha rivolto al suo manager prima di rivolgerle a se stesso. “Sono pronto comunque ad una sfida e credo nella musica”, la risposta dello stesso Shinoda rilasciata in un’intervista al Rolling Stone.
Al contrario di quanto ci si potesse aspettare però i “nuovi” Linkin Park non hanno continuato a seguire quel sound elettro-pop melodico che aveva contraddistinto i loro ultimi lavori. In particolare A Thousand Suns, l’apice del loro cambio più repentino di stile e dunque di maggiore distanza da ciò che li ha portati ad essere i Linkin Park: l’energia, l’intensità emozionale dei loro pezzi, quel misto di rabbia e malinconia fatta di riff accattivanti, di chitarre, di strofe ritmate e melodiche.
Era quella la direzione in cui stavano andando, conferma Shinoda nella medesima intervista, ma ad un certo punto c’è stato un cambio di rotta. Non erano più sicuri che fosse quella la vera direzione da prendere, e The Hunting Party è il primogenito di quel pensiero insicuro, di quei dubbi che si sono trasformati in certezza: i Linkin Park sono tornati. Non dobbiamo però aspettarci un nuovo Hybrid Theory o un nuovo Meteora, bensì un gran miscuglio di tutto e niente; un sound che non è di certo tornato quello del miglior nu-metal di quella generazione, ma che da quel nu-metal recupera parte dell’energia delle chitarre, lasciando evolvere le batterie, amplificando le urla, incattivendo i ritmi. Influenze fortemente punk rock e dall’hardcore melodico fanno prepotentemente il loro ingresso in quest’opera, alzando notevolmente l’indice tecnico di ciò che vien suonato, rendendo la vita più complicata a Brad Delson ma soprattutto al batterista Rob Bourdon, forse la star emergente di questo album.
“Keys to the Kingdom” mette subito le cose in chiaro, grazie a urla strozzate di Chester Bennington e all’aiuto di Joe Hahn che aggiunge un tocco di elettronica ed effetti, più tardi anche a Shinoda, al suo rap e alla sua performance melodica. Un pugno nello stomaco per coloro i quali si aspettavano i dolci pop di A Thousand Suns. Veloci i ritmi della batteria che varieranno durante la stessa canzone (doppio pedale, esatto, qualcosa che non ci si aspettava di certo, considerando gli ultimi lavori del gruppo a stelle e strisce), chitarre terribilmente aggressive che raschiano il sound incattivendolo più che mai. Il caos esplosivo, probabilmente la canzone più energica che i Linkin Park abbiano mai suonato, qualcosa di assolutamente straordinario.
Dopo essere stati lasciati piacevolmente introdotti al sound del nuovo album grazie a Keys to the Kingdom, Page Hamilton (frontman degli Helmet) mostra subito la sua influenza nelle tonalità di “All for Nothing” intervenendo poco dopo le prime strofe rap di Shinoda. Il pezzo sembra quasi suonare come uno dei brani dei Limp Bizkit (primi album), e il trio Hamilton-Shinoda-Bennington sembra funzionare alla grande. Ancora assoli di chitarra, magistralmente accompagnati dai cambi di ritmo di Rob Bourdon, e il refrain “All for nothing” tipicamente punk rock mostra chiaramente quanto Bennington sia in grado di aggiungere del proprio nella sua interpretazione helmettiana.
È poi il turno di “Guilty All the Same”, il primo vero singolo presentato dalla band statunitense, in collaborazione con il leggendario Rakim, uno dei migliori MC di sempre. Tuttavia, prima di far la sua comparsa nel brano, la band mostra palesi influenze dall’hardcore melodico se non dal metalcore, dunque più lavoro del solito per Bourdon e Delson, che ancora una volta giocano bene mantenendo il ritmo delle chitarre e delle batterie piuttosto alto. È da poco più della metà della canzone che The God MC Rakim fa la sua comparsa, ricordando a tutti chi ha influenzato gente come Shinoda, ad esempio. La canzone termina con uno shredding, uno dei tanti che potranno essere apprezzati lungo il corso dell’album.
Piccolo momento di pausa con “The Summoning”, una sequenza di intermezzo dove dei carillon distorti ed un crescendo d’effetti elettronici tipici dei momenti di tensione di un qualsiasi blockbuster ci introducono al prossimo pezzo: “War”. Qui siamo solo ed esclusivamente sul punk rock, non vi sono altre influenze. Non ci sono effetti di sorta, una totale assenza del DJ Joe Hanh e di Shinoda, spazio per Bourdon ancora una volta, ma soprattutto per lo shredding caotico-punk di Brad Delson, e per aggressività pura nelle urla di Chester verso il finale della canzone. Tuttavia il pezzo non pare incantare, violenza gratuita ma che non sembra lasciare il segno.
Cambio radicale avviene con “Wastelands”, che sembra abbracciare la classica formula rap shinodiano + melodia alla Chester. L’influenza punk è qui minima, un lavoro abbastanza in linea con lo stile dell’ultimo album Living Things, un ritmo piuttosto costante con un momento di esplosione prolungato nei tempi verso i tre quarti del pezzo. Poi un lieve momento di calma, dove Chester pian piano riprende il ritornello, che termina con un ponte-intro per la track successiva.
“Until It’s Gone”, è sicuramente la canzone che rappresenta i Linkin Park melodici modello Minutes to Midnight. Shinoda assente nella canzone, ma enfasi sull’energia delle chitarre, un ritmo lento e gustosamente pop-rock, Joe Hahn che utilizza effetti sintetizzati tipici delle soundboards modello 8-bit, sebbene non prepotenti. Il ritmo della canzone potrebbe essere paragonato a quello di What I’ve Done dell’album Minutes to Midnight, ma più deciso, più energetico, più in stile Linkin Park originali. Per non dimenticare, Chester ci ricorda di essere in grado di urlare rendendo la canzone quasi rabbiosa ma ancora di appeal pop, alla fine del pezzo.
“Rebellion”, una delle track più attese, è in collaborazione con Daron Malakian (chitarrista dei System of a Down nonché Scars on Broadway). Esattamente come con Page Hamilton, l’influenza di Malakian è chiara come il sole, con il sound delle chitarre arabeggianti del maestro armeno-americano. Senza esser troppo scontati, il pezzo suona esattamente come uno dei System of a Down, e Mike Shinoda accompagna perfettamente Chester durante l’intera canzone. Essendo in stile SoaD, la canzone si innesca verso i tre quarti con una dose violenta di “We fall apart”, urlata magistralmente da Bennington.
“Mark the Graves” inizia con il duo Delson-Bourdon, che ancora una volta dimostra di saper alternare ritmi davvero interessanti, ora repentini, ora lenti. Una canzone denotante un Chester melodico che prosegue attraverso i ritmi, spesso cangianti, dettati da una batteria mai così presente come in questo pezzo. Mike accompagna Chester senza mai sovrastare la voce di quest’ultimo, in quello che sembra un festival di cambio di ritmi parecchio amalgamati, sulla (bella) copia di una track in stile A Thousand Suns in quanto a varietà di ritmi, ma con una massiccia presenza di quelle chitarre che in quell’album sembravano quasi assenti.
La nota dolente dell’album è la collaborazione con Tom Morello (celebre chitarrista dei Rage Against the Machine) in “Drawbar”. Un pezzo interessante in teoria, ma che in pratica non mette a frutto alcun potenziale. Dura poco, non esplode, il pianoforte dolce è bello nelle sue note, ma la chitarra pizzicata e distorta da Joe Hanh non rende sfortunatamente giustizia all’immenso groove che avrebbe potuto offrire questa collaborazione. Di Chester e Mike non c’è traccia, non c’è cantato. Concettualmente con parecchio potenziale, sfortunatamente lascia l’amaro in bocca. Una buonissima sequenza d’intermezzo, certo, un po’ come dire di guidare una Ferrari su una pista ciclabile: uno spreco.
“Final Masquerade” continua la scia di dolcezza iniziata da Drawbar portandola ad un livello sicuramente più vicino allo stile melodico del gruppo a cui siamo stati abituati da Minutes to Midnight in poi, ma anche qui con delle chitarre che le rendono giustizia, restituendo quel suono emotivamente intenso firmato Linkin Park che si era perso per strada via via con gli anni. Una ballad di tutto rispetto, la classica track da inserire in un nuovo Transformers. Una canzone che attraverso i dolci e malinconici versi di Chester sembra esprimere alla perfezione concetti come delusione e rimpianto. L’assolo tenue di Delson ad un certo punto connette la canzone in modo esemplare. Un pezzo che, seppur non brillante di originalità, risulta forse uno dei più riusciti nel suo intento: trasmettere emotività, come ai vecchi tempi.
L’album si chiude con la sorprendente “Line in the Sand”, che rafforza il concetto di sorpresa, di piacevole sorpresa che rappresenta l’intera opera. Si apre melodicamente bene, con Mike che sembra introdurre una nuova ballad, ma invece cambia di ritmo in maniera impressionante, spiazzando l’ascoltatore, che si ritrova assalito da una delle oramai classiche alternanze Delson-Bourdon; chitarre veloci, batterie pesanti. Poi ancora la calma, ritmi che cambiano ancora, e Shinoda che pian piano si lascia supportare da Bennington, che prende possesso della track parallelamente a un’iniezione di ritmi chiaramente punk rock. In questa canzone c’è tutto: il canto melodico di Mike e Chester con urla e versi rap dei rispettivi esponenti, l’elettronica di Hahn, le influenze pop-rock, i bassi di Phoenix Farrell, gli assoli di Delson, le esplosioni di batteria di Bourdon. La degna conclusione che meglio rappresenta l’intero spirito dell’album: il vecchio misto al nuovo, il tutto con un unico minimo comune denominatore chiamato “energia”.
I Linkin Park sono tornati? Si.
Sono quelli di un tempo? In parte.
Dopo i primi accenni di un risveglio degno di nota nell’ultimo Living Things, il gruppo dimostra di essere in grado di fare cose straordinarie, e The Hunting Party esprime un lavoro certosino che eleva ogni singolo membro del gruppo.
A parte qualche lieve incertezza in War e la deludente Drawbar, The Hunting Party si piazza di diritto negli album top in uscita quest’anno (e non solo).
Siamo davanti al nuovo Hybrid Theory? No, siamo tecnicamente su di un livello superiore.
Bentornati Linkin Park.