Jonathan Davis – lead vocals, electronic bagpipes
James "Munky" Shaffer – guitars
Reginald "Fieldy" Arvizu – bass, additional guitars
Ray Luzier – drums, percussion
Jim Monti - engineering, mixing, additional production
Downlink - mixing
Datsik - mixing ("Tension")
1. Chaos Live in Everything (ft. Skrillex) - 4:02
2. Kill Mercy Within (ft. Noisia) - 3:16
3. My Wall (ft. Excision and Downlink) - 4:34
4. Narcissistic Cannibal (ft. Skrillex and Kill the Noise) - 3:14
5. Illuminati (ft. Excision and Downlink) - 2:58
6. Burn the Obedient (ft. Noisia) - 5:05
7. Sanctuary (ft. Downlink and J Devil) - 4:23
8. Let's Go (ft. Noisia) - 3:10
9. Get Up! (ft. Skrillex) - 3:42
10. Way Too Far (ft. 12th Planet, Flinch, and Downlink) - 8:15
11. Bleeding Out (ft. Feed Me) - 3:05
The Path of Totality
I Korn sorprendono ancora una volta, pubblicando l'ennesimo album completamente diverso da quello precedente: The Path of Totality (Roadrunner, 2011) nasce dalla volontà della band di fondere il proprio sound a quello del filone americano dubstep ed elettronico più distorto, chiamando 10 diversi "laptop DJs" più o meno celebri nell'ambiente (dai nomi di punta Skrillex, Kill the Noise e Noisia ai meno famosi Feed Me, Datsik, 12th Planet, Downlink), e il producer Jim Monti a curare la coerenza sonora tra brano e brano.
Al primo ascolto, la caratteristica che balza all'orecchio è il fatto che, nonostante il progetto sulla carta bizzarro e prevedibilmente sconnesso, in realtà i Korn siano riusciti a compiere un'effettiva fusione tra i due mondi come da programma; ma ci siano riusciti nella maniera più facile e banale: hanno scritto dei pezzi nel loro canone, aumentando però (purtroppo) le dosi di pop radiofonico in sede di composizione, e hanno poi dato il concept di ciascun pezzo in mano ai producer dubstep di turno perché ci ricavassero una base dal sound elettro-distorto alla loro maniera, trovando semplicemente degli equivalenti alle tipiche timbriche di batteria/basso/chitarra.
Si sente subito che queste canzoni non sono nate davvero in collaborazione e passo dopo passo: il contributo dei producer manca delle strutture spesso schizzate tipiche del loro genere, e del loro pallino di inserire diversi cambi di sample e break in continuazione, togliendo stabilità centrale ai pezzi e piuttosto rendendoli delle specie di caotici flussi di coscienza; si ascolti, messo a confronto, il pezzo forse più conosciuto e riuscito di Skrillex, ovvero Rock n' Roll (Will Take You to the Mountain).
Quelli di The Path of Totality sono invece dei pezzi dalla struttura rock piuttosto scontata, vecchia di 10-15 anni, con radici ora nel passato dei Korn, ora nel più mainstream modern-radio-rock di fine 1990s e inizio 2000s (un pezzo come l'opener Chaos Lives in Everything, se depurato dall'elettronica, sembra uscito dal repertorio degli Staind), che passano attraverso una riverniciatura sonora completa in modo di farle suonare trendy all'orecchio del teenager attuale.
Si salvano dal songwriting banale e prevedibile i due singoli di lancio Get Up! e Narcissistic Cannibal, in cui i Korn riescono ancora a trovare qualche melodia decente, e che assieme ai break di Way Too Far costituiscono anche gli unici momenti in cui i DJ ospiti elaborano i tappeti elettronici in maniera un minimo variegata.
L'album è a conti fatti il successo né dei Korn né degli ospiti DJ, ma del producer-controllore Jim Monti, che è innegabilmente riuscito a dare a tutto il progetto un sound coerente e quadrato, rendendolo anzi forse l'album più coerente e quadrato nella carriera del gruppo (ma non è un fatto positivo: la vecchia creatività dei Korn risiedeva anche nei loro cambi stilistici da un pezzo all'altro).
La domanda-chiave nel capire i perché di un simile progetto è perché i Korn abbiano deciso di associarsi proprio ad un trend come il dubstep assurto a moda negli ascolti dei teenager americani degli ultimi 2-3 anni. Il collegamento non è così assurdo, in realtà: la band aveva modellato, con il salto produttivo di Follow the Leader, proseguendo con Issues, e arrivando al vertice con le distorsioni digitali di Untouchables, un sound metal che aggiornava all'era contemporanea lo spirito dell'industrial. Quello di album come Untouchables era già di suo un'originale forma ibrida di heavy rock, metal ed elettronica, che assieme ai due dischi precedenti aveva di colpo invecchiato le produzioni rock dei 1990s, per la maggior parte o calde e live o noise e lo-fi (area cui tra l'altro gli stessi Korn appartenevano nei primi due album a più basso budget), ad eccezione di act industrial-rock all'avanguardia dei tempi come Nine Inch Nails, e pochi altri sperimentatori d'eccezione.
Sembra quindi abbastanza comprensibile che, dopo alcuni dischi meno ispirati e addirittura dopo un ritorno nostalgico allo spirito più nu-metal col precedente Korn III, la band abbia ripescato in quella sua costante fissazione nell'aggiornare elettronicamente e melodicamente la rabbia dell'industrial-metal, e abbia deciso di farlo utilizzando una maniera moderna di fare elettronica. Il problema è che quella scelta consiste in una moda piuttosto effimera, superficiale e vuota di veri creativi: si tratta non del dubstep, ad essere precisi, ma del cosiddetto "brostep", una variazione americana, più distorta e noise, del dubstep nato a partire dal 2004-2005 nello UK, in cui le originali linee cupe e pulsanti dei bassi tipiche del filone britannico sono state rimpiazzate da distorsioni rumoristiche nella fascia sonora dei medi, simili a break di chitarre elettriche super-effettate. Questo aspetto sonoro aggressivo, unito al fattore commerciale presso le platee teenageriali attuali, è senza dubbio ciò che ha spinto i Korn alla scelta specifica.
L'album vive sopra al merito di aver realizzato una fusione di generi che, sebbene come spiegato sopra svolta in maniera semplicistica, resta in ogni caso una mossa sperimentale, rischiosa e azzardata; l'averla condotta, averlo fatto pescando contributi da un filone attuale come quello dubstep/brostep, e aver eseguito i pezzi in modo tecnicamente passabile, specie grazie ad un Davis che continua a vocalizzare impeccabilmente (sebbene scarso in sede di scrittura, come gli altri), li pone in ogni caso su di un gradino di consapevolezza superiore rispetto a quello di progetti collaborativi come quello di Metallica e Lou Reed uscito lo stesso anno.
Ma, se queste caratteristiche lo salvano dal baratro, non lo possono invece salvare dall'essere la peggior release nella carriera dei Korn: il songwriting non è mai stato tanto banale e slavato a livello di strutture e melodie, i guest non provengono da background musicali in sé interessanti, e oltre a ciò nemmeno iniettano i contributi schizoidi che dovrebbero, anche perché costretti a non farlo già dal materiale di partenza.
Il fatto che dà più da pensare è che, forse, la descrizione di quest'album come "future metal", fatta da Davis, potrebbe non essere affatto campata per aria.