- Jens Kidman - Voce
- Fredrik Thordendal - Chitarra
- Mårten Hagström - Chitarra
- Dick Lövgren - Basso
- Thomas Haake - Batteria
1. I Am Colossus
2. The Demon's Name Is Surveillance
3. Do Not Look Down
4. Behind the Sun
5. The Hurt That Finds You First
6. Marrow
7. Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion
8. Swarm
9. Demiurge
10. The Last Vigil
Koloss
Dopo quattro anni di silenzio dall'ultimo obZen (interrotti solo nel 2010 dal sorvolabile Alive), i Meshuggah ritornano sulle scene musicali con il loro settimo full-length Koloss, pubblicato dalla Nuclear Blast il 23 marzo 2012, album che riconferma il quintetto svedese come una delle punte di diamante del metal più estremo e cervellotico degli ultimi vent'anni, nonché l'ottimo stato di ispirazione della band anche nel nuovo decennio.
obZen, la prima consistente battuta d'arresto nel percorso di un gruppo in costante evoluzione fin dal primo Contradictions Collapse, aveva fatto temere a molti fan che i Meshuggah avessero incontrato una stasi creativa a causa dell'abbandono di gran parte delle istanze più futuriste e robotiche degli album immediatamente precedenti e al recupero di sonorità (oltre che molto più melodiche) più propriamente thrash e progressive; Koloss invece riparte proprio da dove i Meshuggah si erano fermati in Catch-33, rappresentando probabilmente ciò che obZen non era riuscito ad essere: una definitiva e compiuta commistione del sound "classico" della band con quello più cibernetico esibito nel nuovo millennio.
Il nuovo lavoro dei Meshuggah riprende infatti la caotica opera di destrutturazione del thrash metal cominciata propriamente in Chaosphere e poi proseguita nei due full-length successivi (nonché, e soprattutto, nell'EP I), riportando in auge i tessuti dissonanti, le strutture cacofoniche quanto profondamente cerebrali e gli assalti poliritmici, ma ordinando questo miasma metal alienante e distruttivo in progressioni armoniche e in riff che mantengono il groove tipico del thrash metal più tecnico cui Contradictions Collapse e Destroy Erase Improve si ispiravano nella prima metà degli anni Novanta. In questo granitico baccanale di fraseggi chitarristici sincopati, brutali ruggiti vocali e ritmiche forsennate, vengono infine iniettate dosi di jazz-fusion (dovute perlopiù agli arrangiamenti e agli assoli holdsworthiani di Fredrik Thordendal), secondo una regola mai violata dal complesso fin dai tempi dell'EP None del 1994, per quanto qui applicata in maniera molto più sottile e meno imponente rispetto ai classici della band.
Koloss riesce quindi nel difficile compito di mostrare il classico sound dei Meshuggah senza però dover apparire per forza datato, scontato o semplicemente manieristico: i massicci accordi chitarristici che scandiscono il ritmo sincopato di I Am Colossus si ricollegano alle impenetrabili e assordanti mura sonore erette da Nothing e Catch-33, ma la produzione secca si distanzia dal sapore freddamente cibernetico di quei due album per ritornare alle atmosfere evocate da Destroy Erase Improve, mentre il roccioso thrash metal di The Demon's Name Is Surveillance, con il suo intercedere impetuoso e martellante, appare come una versione meno aliena del metal industriale di Chaosphere.
E se Do Not Look Down reinterpreta il groove metal degli anni '90 nell'ottica disumanizzante tipicamente meshugghiana, mentre Behind the Sun riprende le cadenze panzer e le distorsioni inquietanti di Nothing (ponendosi come uno dei vertici di tutto Koloss), la sfuriata nevrotica post-thrash di The Hurt That Finds You First appare perfino un parto di Devin Townsend per i suoi Strapping Young Lad, con le sue accelerazioni brutali e le esplosioni dissonanti delle chitarre, prima di assopirsi lentamente in una coda fusion venata di subdoli groove in sottofondo.
Ma è forse nella seconda metà dell'album che Koloss giunge al picco di ferocia esecutiva: dapprima Marrow, con le sue evoluzioni solistiche cerebrali e il suo ritmo claudicante, continuamente abbozzato e interrotto nel proseguire del brano, quindi l'intercedere scomposto di Break Those Bones Whose Sinews Gave It Motion e soprattutto il brutale capolavoro Swarm (le cui cadenze death-metal e le ripartenze futuristiche si pongono come una sorta di appendice all'opera di destrutturazione della musica metal intrapresa egregiamente in I) sfoderano gli episodi migliori di tutto il lavoro, ad ennesima conferma dello stato di ispirazione creativa della band.
Dopo le apocalittiche deflagrazioni di Demiurge, infine, l'album si spegne lentamente con la dimessa coda ambientale di quattro minuti di The Last Vigil, l'unico momento in cui si allenta la tensione esplosiva che permea tutto il disco.
Se obZen lasciava preoccupantemente presagire che lo stile dei Meshuggah si stesse standardizzando e arenando in una proposta estremamente avvincente ma molto più classica di thrash metal tecnico e progressivo, Koloss fuga ogni dubbio dando alla luce un nuovo esaltante capitolo che si pone come degno successore dei lavori della band dei primi Noughties, aggiungendo al terrorismo sonoro una certa dose di umanità in più mutuata dal lavoro precedente che, seppur probabilmente possa essere motivo di delusione per qualche fan del materiale più sperimentale del gruppo, rimane una delle esperienze più suggestive del panorama estremo degli ultimi anni.
In una scena come quella djent, che a pochi anni dal suo riconoscimento ufficiale è già satura di cloni superficiali ed emulatori mediocri, i Meshuggah si distinguono ora come negli anni Novanta, scansando il rischio di presentare un nuovo lavoro di stereotipi autocitazionistici e dimostrando di essere, ancora una volta, una delle band più uniche di tutta la scena heavy metal.