- Mikael Åkerfeldt - Tutti gli strumenti
- Steven Wilson - Tutti gli strumenti
- Gavin Harrison - Batteria
1. Drag Ropes
2. Storm Corrosion
3. Hag
4. Happy
5. Lock Howl
6. Ljudet Innen
Storm Corrosion
Essendo stato partorito dalla mente di due dei massimi guru della scena progressive attuale, Mikael Åkerfeldt degli Opeth e Steven Wilson dei Porcupine Tree, era scontato che quello degli Storm Corrosion risultasse come uno dei lavori più chiacchierati e attesi dell'anno, non solo per via della fama e dell'enorme seguito che questi due musicisti hanno riscosso nella loro carriera ventennale (e soprattutto a partire dallo scorso decennio), ma anche perché l'attesa della pubblicazione del debutto eponimo del gruppo - avvenuta solo il 7 maggio 2012 dalla Roadrunner Records nonostante l'album fosse terminato già a partire dal settembre precedente - è stata accompagnata per oltre sei mesi da continue interviste e anticipazioni che hanno alimentato il già sostenuto hype di tutto il progetto.
Oltretutto la recente release delle ultime fatiche di Åkerfeldt con gli Opeth e di Wilson solista, ovvero i pessimi (ma ricevuti - in modo nemmeno troppo sorprendente - entusiasticamente dai fan) Heritage e Grace for Drowning rispettivamente, aveva portato ulteriormente sotto i riflettori le figure dei due artisti, che hanno così potuto godere di maggiore attenzione durante la campagna pubblicitaria degli Storm Corrosion anche per le frequenti dichiarazioni dei due personaggi coinvolti, in cui stabilivano uno stretto rapporto di parentela tra i tre lavori (a febbraio Wilson dichiarava: «If you'd asked me three months ago about the music, I would have said, 'Expect the last thing you would expect.' But actually, now that Heritage and Grace for Drowning have come out, I don't think it's going to be that much of a shock to people, because it's almost like a third part of the trilogy, in a way. If anything, it's even more orchestral, even more stripped down, even more dark, twisted and melancholic… but it certainly feels like it comes from the same place as Heritage and Grace for Drowning, which indeed it does because it was written during the same period.»).
A conti fatti però, Storm Corrosion non è assolutamente un'opera così stratificata, complessa e unica come il duo ha ripetuto così spesso in questi mesi: la pseudo-trilogia si chiude con il suo capitolo peggiore (ed è molto, considerando anche la pochezza dei suoi due predecessori), che non si libera dai molti stereotipi del progressive-rock che Heritage e Grace for Drowning sfilavano orgogliosamente nel 2011, ma si limita a diluirli in un flusso musicale onirico di arpeggi acustici che trova i propri precedenti nel dilatato prog rock dei King Crimson di Islands e nel minimalismo strumentale e compositivo del folk cantautoriale (sprovvisto però totalmente delle atmosfere alienanti dei primi e della sofferta partecipazione emotivi del secondo).
È quindi su questa struttura portante che gli Storm Corrosion (e in particolar modo Steven Wilson, colui che ha avuto il ruolo predominante nell'opera di composizione e arrangiamento delle sei composizioni dell'album) innestano di volta in volta abbellimenti con archi, tastiere e, in misura nettamente minore, percussioni, a tributare i soliti omaggi alla tradizione rock inglese. E per quanto i modelli presi a riferimento siano ancora una volta evidentissimi (in generale i brani citano a piacimento i complessi più disparati nell'ambito progressive e folk rock anni '70), tali referenti non vengono più ostentati tronfiamente, bensì piuttosto distillati subdolamente lungo il lavoro tramite una silenziosa opera di arrangiamenti che abbozza puntualmente tessuti e climax musicali che, di fatto, non vengono mai portati a compimento (in questo senso, avvicinando l'album all'estetica soporifera e inerme dello slo-core, se non fosse che Storm Corrosion finisce spesso nel reiterare e allungare passaggi con l'unico scopo di rendere il tutto fintamente più atmosferico).
La sperimentazione millantata da Steven Wilson e Mikael Åkerfeldt sta, in definitiva, solamente in questo modo piuttosto esotico del duo di sfruttare le fonti da cui hanno sempre attinto lungo tutta la loro carriera, ma difficilmente si può parlare di un album innovativo, nè tantomeno riuscito.
Già Drag Ropes, il primo brano reso noto dal duo (con tanto di video promozionale dal sapore grottescamente gotico), mette in chiaro tutti i notevoli problemi di dilatazione e minimalismo esasperato e autoindulgente: si tratta di un lungo e malinconico madrigale riccamente arrangiato da Wilson, sfruttando un arsenale di mellotron (nella migliore tradizione crimsoniana), chitarre acustiche, tastiere, archi e perfino inserti corali a la Gentle Giant. Il tocco di Åkerfeldt si percepisce solo per via degli arpeggi acustici e del solo di chitarra, gli unici elementi in tutto il disco che portano l'eredità degli Opeth nel progetto degli Storm Corrosion, soffocato dalle direttive di Wilson, e perfino nelle strategie vocali emula l'amico britannico. Ciò che è peggio però, è il fatto che un pezzo così monocorde e faticoso nel suo intercedere rappresenti di fatto l'episodio migliore di tutto Storm Corrosion, gettando più di un'ombra sulla qualità del lavoro: i frammenti che rendevano Drag Ropes interessante (salvo annoiare dopo l'ennesima reiterazione fine a se stessa dello stesso pattern) scompaiono infatti totalmente nella title-track, un'altra lunga (ma questa volta ancora più piatta) cavalcata folk intimista ed eterea (quasi una versione sbiadita dei Comus di The Herald rivista dalle trame psichedeliche dei Pink Floyd anni '70), condita da forzati arrangiamenti progressive ( in particolare, oltre al solito mellotron, i fiati).
In Hag quindi il duo ritorna all'esplicito tributo delle realtà progressive rock inglesi dei primi anni '70 (sono soprattutto i King Crimson di Starless a essere qui ripresi, a partire dall'introduzione decadente dominata dal mellotron fino al climax più heavy, con tanto di sfogo batteristico a ricordare lo storico exploit di Bill Brufford verso la conclusione del brano), mentre i cinque minuti di Happy non sono altro che un riempitivo a base degli stessi insistenti arpeggi folk che dominavano le prime due tracce. Dove fallisce Happy, rimediano invece leggermente la successiva Lock Howl, un'altra ballata folk/prog più riuscita che unisce agli arpeggi acustici dal sapore opethiano sonorità vagamente psichedeliche ed orientaleggianti, e la conclusiva Ljudet Innan, dieci minuti di musica onirica e dilatata nella vena dei Talk Talk di Spirit of Eden: come l'opener Drag Ropes, dove non si arenano nella ripetizione della stessa idea per interi minuti, mostrano invece intuizioni che avrebbero dato un valore ben maggiore a Storm Corrosion.
Se il lavoro partorito risulta senz'altro originale per gli standard di Opeth e Porcupine Tree, rivelandosi sicuramente una mossa piuttosto coraggiosa da parte dei due artisti capace di spiazzare sia quanti speravano (utopisticamente) in un ritorno al progressive metal più duro esibito nello scorso decennio, sia quanti si aspettavano una più scontata opera di revival prog nella vena di Heritage e Grace for Drowning, ciò non permette comunque a Storm Corrosion di rappresentare un'uscita interessante nel panorama musicale attuale. L'attitudine citazionista di Åkerfeldt e Wilson mal si amalgama con lo spirito più spoglio che i due hanno tentato di esibire nel song-writing di questo album, per cui il risultato è un disco forzato tanto nell'impiego di arrangiamenti prog quanto nelle soluzioni più misere.
Storm Corrosion rifugge quindi la sfarzosità formale che aveva rappresentato l'unico appeal di Heritage e Grace for Drowning, ma le nuove sonorità adottate non riescono nemmeno a risultare più emotive o affascinanti, poiché la reiterazione ossessiva di stessi schemi per decine di minuti, più che a un progetto compositivo ben definito, appaiono dovute a un'incapacità del duo nel comprendere l'estetica minimalista.
I pochi momenti di qualità che affiorano di tanto in tanto durante l'ascolto vengono subito soffocati da questa ripetitività, spazzando via ogni tipo di inquietudine e melanconia ricercata, lasciando spazio a un solo sentimento: la noia.