- Mikael Åkerfeldt - chitarra, voce, basso
- Peter Lindgren - chitarra
- Martin Lopez - batteria
1. Prologue (00:59)
2. April Ethereal (08:41)
3. When (09:14)
4. Madrigal (01:25)
5. The Amen Corner (08:43)
6. Demon of the fall (06:13)
7. Credence (05:26)
8. Karma (07:52)
9. Epilogue (03:59)
My Arms, Your Hearse
My Arms, Your Hearse: non un titolo migliore, che cita un verso di Drip Drip dei Comus, poteva essere scelto dalla rinnovata line up degli Opeth (Martin Lopez prende il posto di Anders Nordin alla batteria e Mikael Åkerfeldt momentaneamente quello di Johan de Farfalla al basso prima dell’arrivo di Martin Mendez) per l’album che avrebbe costituito un ulteriore passo verso la completa formazione stilistica del combo. Il titolo dell’opera racchiude già in se stesso tutta la miseria e la decadenza espressi dalla musica di Mikael Åkerfeldt e compagni: un lamento disperato imprigionato in un paesaggio di campagna, in quei filari che si elevano verso un cielo sì primaverile, ma ancora intriso dell’oscurità invernale. Sensazioni di perdita interiore rendono grande My Arms, Your Hearse, un altro capolavoro psicologico degli Opeth, che mostra nelle nove fugaci tracce la fragilità dell’esistenza umana, analizzata proprio nel momento cruciale, quello della morte.
Il concept di Mikael si sviluppa durante un intero anno di sofferenza, schiudendosi al profumo della pioggia in aprile per concludersi nel più rigido inverno delle nostre emozioni.
Prologue avvia il viaggio dentro la realtà ambientale ed umana, un viaggio che pare quasi una presa di coscienza da parte del terzetto svedese, uscito dal spontaneo quanto bello Morningrise. La pioggia e il pianoforte creano il ponte di collegamento verso la maestosa April Ethereal, una vera furia a cavallo tra Black e Progressive, in cui Mikael crea effetti d’oltretomba attraverso il growl possente, profondo e carico di dolore. I supporti acustici che si intervallano alle sferzate improvvise, veloci e devastanti della batteria sono l’elemento fondamentale che conferisce il sapore malinconico. Raffinata e complessa la musica degli Opeth, quanto diretta e trascinante: riff di chitarra mai scontati e una batteria spinta a ritmi insostenibili ma ugualmente piacevoli, sono il fulcro dell’innovazione operata dalla band; il basso perde d’importanza rispetto ad Orchid e Morningrise, non tanto nella qualità e nella quantità degli inserti, bensì nel volume di registrazione.
When è l’episodio più inaspettato, che sconvolge l’ascoltatore con il demoniaco growl iniziale e lo delizia successivamente con i cori, costantemente supportati dalle sezioni acustiche. La batteria di Lopez permette di esplorare una nuova dimensione degli Opeth, più impetuosa della precedente ma altrettanto sognante. Lentamente, con il trascorrere delle canzoni, il dipinto della formazione svedese si riempie di sfaccettature inedite e contrasti cromatici di grande effetto, prodotti soprattutto dalle chitarre classiche, come nell’intermezzo strumentale Madrigal.
Gli Opeth si prendono un respiro ragionato prima di ritornare ai timbri più estremi con The Amen Corner, maligna nella sua prima parte violenta e struggente nei temi di chitarra ricchi di variazioni. Anche l’estate cominciata con When sta svanendo per lasciare spazio all’ultima porzione di My Arms, Your Hearse, quella riguardante le due stagioni del buio e della perdita, l’autunno e l’inverno. Demon of the Fall, in cui la voce di Mikael, seppur filtrata, conserva una particolare melodia trasmessa anche dalle chitarre veloci e fugaci.
Il tempo trascorre rapidamente e presto ci si trova immersi in Credence, pezzo acustico cantato dal mesto clean di Åkerfeldt, una ballata gradevole nel suo andamento suadente e nelle pennate eleganti delle chitarre intrecciate.
Credence rappresenta il secondo e ultimo respiro prima della ripresa infernale con Karma, ovvero il ritorno alla sofferenza di cui è carico l’inverno “And as they say, grief is only able to possess”. La stagione fredda per eccellenza indica la fine di ogni viaggio intrapreso durante il lungo anno: si è giunti ad un Epilogue di morte e desolazione definitiva; sarà l’inverno a coprire ora con la sua coltre bianca il risultato di un anno di ricerca interiore, culminata in un ulteriore smarrimento esistenziale.
Al di là dei testi del concept, la capacità maggiore dimostrata dagli Opeth in My Arms, Your Hearse è quella di sapersi rinnovare con inspiegabile facilità, distanziandosi dalle prime due produzioni grezze ma cariche di un patos ambiguo; l’album del 1998, più omogeneo nella struttura, fa comprendere quale sia la direzione musicale percorsa dopo tre anni di tentativi di costruire un song-writing personale ed originale. Tale prova è stata superata brillantemente e ora non resta che riavviare il disco dall’epilogo, “per capire quale sia la bellezza del suo prologo”. Geniale interpretazione per una band fuori dal comune.