Márcio da Cunha: Guitar and Vocals
Additional Arrangements/Performers:
Filipe da Graça: Drums and Percussion
Silas Ferreira: Hammond and Wurlitzer
Kristian Ellis Wood: Flute and Bassoon
Sam Cockerton: Violins
Blarmino: Chorus on I Should Have Known and Sands of Time
01 Dead Joy
02 Will You Ever Drag Me Down?
03 Snail
04 I Should Have Known
05 Ginger Eyes
06 Mary Climbed The Ladder For The Sun
07 Dead End Blues
08 Crows In The Storm
09 The Phoenix Shall Rise
10 Sand Of Time
Mary Climbed the Ladder for the Sun
E chi andava a pensare che il Portogallo riuscisse a catturare le nostre attenzioni musicali per ben due volte nel giro di pochi mesi?
Dopo la sorpresa Gala Drop è ora Mandrax Icon, nome d’arte del cantante e chitarrista Márcio da Cunha a debuttare con dieci brani che raccolgono i suoi ultimi sei anni di lavoro, sei anni molto ben spesi a nostro avviso.
Lui e la sua etichetta dicono che sia ispirato al folk/delta blues pre-war e noi non lo mettiamo in dubbio, ma sicuramente ascoltando Mary Climbed the Ladder for the Sun quello che risalta all’orecchio è ben altro folk, altrettanto ispirato.
La prima impressione è quella che Màrcio non si crei problemi nell’innestare influenze europee nel corpo dell’alt-folk statunitense. Forse qualcuno ancora ricorda The Ugly American, album solista del 2003 di Mark Eitzel degli American Music Club; quel disco bellissimo fu registrato in Grecia con musicisti locali e già allora il calore mediterraneo si sposò felicemente all’intimismo un po’ malinconico del californiano e questa è la dimensione congeniale a Mandrax Icon prima che si pensi erroneamente a derive etniche che qui proprio non ci sono.
Il paragone poi calza perfettamente se si pensa che le voci dei due artisti sono molto simili ed un’altra forte suggestione che domina l’ascolto è quella degli Spain di Josh Haden e questo dovrebbe essere sufficiente a delineare un album il cui tono crepuscolare è sempre fortemente legato ad un alternative folk di stampo americano.
Per gli amanti della dimensione acustico-cantautoriale questo disco è decisamente balsamo per l’anima, soprattutto in chi scorge nell’Europa i segnali di una rinascita del folk moderno che se da un lato si vuole affrancare da una tradizione autoctona e a buon diritto equipararsi a quello statunitense, dall’altro è proprio oltreoceano che guarda in cerca di un felice abbraccio.
Ballate costituite da semplici accordi, da una notevole profondità vocale e da preziosismi di violino e fingerpicking dimostrano che il fado nazionale a volte è più uno stato d’animo che un genere musicale codificato, un po’ come capita con la saudade brasiliana.
Ci sono anche momenti briosi, affini ad un alt-blues le cui screziature in minore - queste sì di radice europea – sembrano filtrate da una sensibilità che potrebbe essere indirettamente ricollegabile tanto ad un De Andrè quanto a un Cabeki, ma, come dicevamo, sono solo riflessi di un quadro perfetto nel suo bilanciare antica e nuova musica, antico e nuovo mondo.