1. The Boys Are Leaving the Town
2. Young Hearts Spark Fire
3. Wet Hair
4. Rockers East Vancouver
5. Hearts Sweats
6. Crazy/Forever
7. Sovreignity
8. I Quit Girls
Post-Nothing
I Japandroids non sono i Sonic Youth, non hanno lo spessore dei Ride, e non hanno un contratto con una grande casa discografica che gli permetta l’attenzione globale di cui hanno incominciato a godere Cobain e compagni dopo Nevermind. Tuttavia, a nostro parere, in un’altra epoca (una a caso, gli anni ‘90), sarebbero già stati sparati a mille all’ora nell’olimpo dei gruppi non-pop del momento. Le tracce dell’album sono poche, ma ti lasciano con la pancia piena e con un’urgente voglia di tornare all’inizio e riascoltarlo. I Japandroids sono Brian King (chitarra e voce) e David Prowse (batteria e voce), inizialmente un trio, i due decisero per il duo dopo aver sperimentato la sconvenienza, e forse l’inutilità, di un corpo estraneo al progetto. Il genere musicale viene definito da loro stessi garage rock, aggiungiamo noi giustamente, visto che è proprio il tipo di musica che potresti sentire uscire dal garage di Thurston Moore o Black Francis se alzassero a palla le distorsioni e incominciassero ad urlare come ossessi.Scimmiottando quelle classificazioni un po’ radical chic che vanno tanto di moda oggi, intitolano il loro primo album Post-Nothing, registrato durante una pausa tra gli oramai numerosissimi concerti (200 in 3 anni tra Nord America e Europa).
Le idee sviluppate sono tante, i ritornelli catturano, e la sporcizia sonora che assalta l’ascoltatore è estremamente attraente, forse un po’ ingenua. La cosa più eclatante, originale e a tratti esaltante, è che le belle melodie che ne vengono fuori, i vortici strumentali che si sviluppano tra Wet Hair, Hearts Sweats e I Quit Girls, provengono semplicemente da due strumenti suonati sempre con le stesse distorsioni e gli stessi settaggi. Gli incroci tra le voci di King e Prowse combaciano poi con un’imperfezione quasi maniacale, conferendo all’intero cd una solida corazza garage. I testi sono diretti, semplici, ripetuti, insistenti, a volte volutamente affannati, ma soprattutto ritmici (“the boys are leaving town / the boys are leaving town / the boys are..” etc. etc.), riuscendo perfettamente nell’intento di tenere il passo ai frenetici movimenti di King sulle chitarre. The Boys Are Leaving Town è la perfetta introduzione al clima naiveche pervade l’intero album, semplice, diretta, sincera. Young Hearts Spark Fire è invece espressione del lato più disinvolto di King, per i cori che si ripetono (“Yeah yeah yeah”) e il testo di una semplicità adolescenziale (“I don’t want to worry about dying / I just want to worry about those / Sunshine girls”). Wet Hair è la canzone che ti prende con i ritornelli ripetuti ad oltranza e il tenerissimo coretto in chiusura. Rockers East Vancouver è il primo pezzo scritto interamente da Prowse e si sente, vista la percettibile tendenza ai cambi di ritmo e di cadenze sonore.
Arrivati a questo punto dell’album, dopo quattro belle canzoni, ci si aspetterebbe perlomeno un calo di decibel, magari qualche pezzo meno martellante, più fluido, meno incisivo, più radiofonico, e invece no, ci ritroviamo con i migliori tre pezzi dell’album (per niente radiofonici); le opere d’arte in questione sono Hearts Sweats, Crazy/Forever e I Quit Girls che, a nostro avviso, sono davvero tre dei più bei pezzi che la scena indie canadese abbia mai sentito o concepito. Hearts Sweatsè un riuscitissimo bilanciamento tra il cantato quasi stile Beastie Boys, la chitarra sporca, i soliti cori, il testo bello, mai ovvio, a tratti ironico (“Your style is such a mess girl/ And I should know/ I used to date a stylist”). Crazy/Forever è lo spazio infinito in cui perdersi, la loro vera canzone, il loro momento più alto, una di quelle con le melodie che ti prendono e non ti lasciano per giorni, che canticchi per mesi, e che nonostante ciò non puoi definire pop, un piccolo capolavoro. Sovereignty è un po’ un ritorno agli esordi del cd, personale per il testo (“It’s raining/ In Vancouver/ But I don’t give a fuck”), bella per la pirotecnica esplosione finale. Alla fine c’è “I Quit Girls” che ha la sufficiente ridondante solennità che si richiede all’ultimo atto di un album cominciato bene e finito ancora meglio.
Ascoltando qualche live ci si accorge anche che il coinvolgimento emotivo che i due canadesi riescono a suscitare nel pubblico non è da principianti e le belle atmosfere dell’album vengono fedelmente ricreate con facilità e naturalezza. Insomma i presupposti ci sono, le idee ci piacciono, lo stile anche, ciò che ci si augura è semplicemente un futuro non troppo lontano dalle affascinanti, innocenti e a tratti geniali traiettorie disegnate da questa bella, bellissima opera prima.