- Dylan O'Toole - Chitarra, voce
- Will Lindsay - Chitarra, voce
- Ron DeFries - Basso
- Bill Bumgardner - Batteria
1. Rape
2. The Impetus Bleeds
3. Directional
4. Rhetoric of No
5. Clarify
6. Disambiguation
From All Purity
Gli Indian sono un quartetto statunitense (proveniente da Chicago) attivo fin dal 2003 e dedito all'esplorazione delle propaggini più feroci del metal estremo del nuovo millennio.
Esorditi con il primo The Unquiet Sky (Seventh Rule Recordings, 2005), che esibiva una loro (non particolarmente creativa) interpretazione dello sludge metal più malsano e abietto degli anni Novanta, sono infine emersi dal folto sottobosco dell'underground con il loro quarto full-length Guiltless del 2011, grazie anche all'approdo alla Relapse Records, ma soprattutto a un raggio d'azione ben più ampio (arrivando a lambire territori drone metal).
Sempre sotto l'egida della Relapse, gli Indian pubblicano a gennaio 2014 quello che finora è probabilmente il loro album più riuscito, ovvero From All Purity.
Proseguendo sul percorso intrapreso con l'ultimo Guiltless, la band indulge nelle sonorità più aberranti della musica metal, collocandosi in continuità con la tradizione dei maggiori sabotatori dello sludge, del drone e finanche del noise degli ultimi vent'anni. L'influenza dei più importanti complessi sludge degli anni Novanta (specialmente gli Iron Monkey, i Dystopia e i Noothgrush, di cui riprendono le cadenze ossessive e le atmosfere strazianti) è ancora ben evidente, ma riescono finalmente a superare il semplice tributo al panorama old school sporcando tali ingerenze con le atmosfere apocalittiche dei Neurosis, gli abissi di cieca disperazione dei lavori della Relapse dei Today Is the Day, il sound torturato e claustrofobico dei Khanate, i rumorismi dei Khlyst, perfino con il riffing e la devastazione delle partiture del nuovo black metal (non a caso, il chitarrista Will Lindsay ha lavorato anche con Wolves in the Throne Room e Nachtmystium).
Si tratta di un tentativo di rinnovare la propria proposta che era già stato abbozzato in Guiltless, ma se lì si poteva parlare solamente di timide incursioni in territori alieni allo sludge, qua le inflessioni esterne contaminano indelebilmente il sound degli Indian. Ciò che si nota all'ascolto di From All Purity è che il gruppo ha finalmente superato gli stereotipi di songwriting istituiti dai classici del genere: quelle di From All Purity non sono più semplici marce funebri dal minutaggio estenuante suonate con strumenti accordati due toni più bassi del normale, ma brani che, pur non scendendo ad alcun compromesso con orecchiabilità, melodia e facilità di assimilazione, si aprono ad arrangiamenti, dinamiche e strutture che svecchiano la formula valorizzando comunque la componente psicologica della musica degli Indian.
Manifesto della raggiunta maturità del complesso, l'opener Rape si abbandona in uno dei numeri più tormentati dello sludge metal degli ultimi anni, conciliando il riffing monolitico di Steve Von Till e il terrorismo cacofonico di James Plotkin, distaccandosi al contempo dai numerosi emuli di entrambi gli artisti grazie a un esperto sostegno ritmico (non esattamente virtuoso, ma colorato e dinamico quanto basta da riuscire a risultare devastante senza ricorrere ai soliti cliché del genere) e soprattutto grazie alle urla di Dylan O'Toole. Con il suo registro sgolato e disperato, perfetto punto di incontro tra quelli di Steve Austin e Alan Dubin, è forse proprio O'Toole il maggior artefice dell'atmosfera di incombente cataclisma che aleggia su tutto From All Purity, anche nei momenti meno creativi del disco (come ad esempio The Impetus Bleeds, che per cadenze e melodia non è molto distante da quanto già fatto dagli Isis di Celestial, o Directional, che sembra quasi un'appendice a Rape).
È la seconda metà dell'album che però sfodera al meglio ciò che gli Indian hanno da offrire nel 2014. Il primo vertice di From All Purity è Rhetoric of No, suddivisa in una prima sezione che sfiora la furia del noisecore (vocalizzi schizzati, ritmi epilettici, chitarre che rievocano l'esecuzione di Steve Austin su Sadness Will Prevail) e una seconda parte più sludge (ma sempre corrotta e smembrata da dissonanze e rumorismi sempre più invasivi), separate da un sinistro lead melodico di chiara influenza black metal; quindi, l'incubo di Clarify indulge in quattro minuti e mezzo di puro noise, in un vortice orrorifico che cannibalizza l'opera di Runhild Gammelsæter, Merzbow e Pharmakon.
Quando infine dalle deflagrazioni di chitarra ed elettronica emerge l'arpeggio glaciale che segna l'inizio della conclusiva Disambiguation, l'album giunge al suo apice indiscutibile, in una tragica marcia che evolve da uno sludge/drone di chiara ascendenza Neurosis e Khanate in un rovinoso crescendo che, con il passare dei minuti, si allontana sempre più dalla base doom metal in favore della desolazione black metal dei Weakling.
Forse ancora non perfettamente calibrato (come testimoniano alcuni passaggi a vuoto nella prima metà dell'album), lo stile degli Indian, assorbendo e reinterpretando in modo creativo le innovazioni delle più importanti formazioni estreme degli ultimi decenni, rappresenta comunque una delle più intelligenti esperienze del metal attuale. Rape, Rhetoric of No e Disambiguation, in particolare, sembrano preludere a un'evoluzione del sound del quartetto verso sonorità debitrici dello sludge, del noise e del black metal, eppure non totalmente riconducibili a nessuno di questi tre generi: basterebbero anche solo questi tre brani a rendere From All Purity uno dei dischi più notevoli della scena post-sludge da qualche anno a questa parte.