Whipping the Devil Back
Whipping The Devil Back è il secondo full-length di Guy Littell che conferma il talento compositivo ed il songwriting cristallino del precedente Later, nonché le 'presenze' che albergano nel suo animo artistico; Neil Young su tutti, che, se già in passato si delineava tra le influenze principali del nostro, ora sembra essere quasi la cifra stilistica unica.
Perché disperdersi tra mille rivoli – sembra chiedersi Guy Littell - quando si può risalire direttamente alla fonte? Forse perché a volte la scalata dritta è ardua (vedi le asprezze vocali di Lovely People), potrebbe essere la risposta; in ogni caso questa essenzialità è la forza di Guy Littell.
Questo apparire nudi e crudi, questo rivelare sé stessi disegnando poche quanto efficaci linee è arte rara di questi tempi se si eccettuano alcune frange estreme del folk americano troppo marginali al mercato per non essere definite weird o freak. E poiché non ci sembra quello al momento l'orizzonte simbolico di Guy Littell (benchè un certo minimalismo lunare sia già ben presente in brani come You Disturb The Light o nella coda di Cedar Forest che potrebbero essere deliziose anticipazioni di possibili risvolti futuri) restiamo con un certo languore alla fine dell'ascolto dovuto alle scelte di produzione e di suono. Viene naturale chiedersi quanto potenziale inespresso c'è indossando questi abiti, quanti dettagli e particolari potrebbero essere esaltati con un sound meno homemade, quanto più appeal potrebbe esserci nei confronti di un mercato e di un pubblico che sembra fagocitare al contempo tutto e niente.
Certo, i soliti vecchi discorsi della critica supponente, la stessa che però riconosce anche quanto sia infinatamente vero questo Guy Littell nel suo aderire a questa sorta di codice interiore (ci piace immaginare queste canzoni quasi uguali alle corrispettive versioni di quando son nate) dettato da un percorso costellato di tante ombre, almeno quanto le luci che in esso baluginano.
Del resto ogni scelta qui dentro deve essere stata ponderata e voluta; non ci si ritrova infatti così per caso un gigante quale Steve Wynn nella titletrack del proprio album, brano in cui il leader dei Dream Syndicate suona l'armonica per tutta la sua durata e senza manie di protagonismo – da grande qual'è – lo screzia di venature paisley underground fortemente affini allo spettro cromatico su cui si muove Guy Littell. Queste cose avvengono solo per affinità elettive (quanti oggi in Italia possono vantare amicizie tali così evidentemente disinteressate?), le stesse che gli permettono di suonare nella stessa serata sullo stesso palco con Dan Stuart, per fare ancora un altro esempio.
A noi dunque i nostri languori e a Guy Littell tutti gli onori per questo equilibrio artistico che ci appare così fragile e delicato ma che proprio per questo genera poi perle così lucenti.