Voto: 
10.0 / 10
Autore: 
Emanuele Pavia
Etichetta: 
Polydor
Anno: 
1971
Line-Up: 

- Rudolf Sosna - Chitarra, Tastiere
- Jean-Hervé Péron - Basso
- Hans Joachim Irmler - Organo
- Werner "Zappi" Diermaier - Batteria
- Arnulf Meifert - Percussioni
- Gunter Wüsthoff - Sintetizzatori, Sassofono

Tracklist: 

1. Why Don't You Eat Carrots
2. Meadow Meal
3. Miss Fortune

Faust

Faust

A seguito delle rivoluzioni che avevano caratterizzato la musica nella seconda metà degli anni Sessanta, nel panorama rock si ebbe un tumulto senza precedenti. Ormai decine di artisti avevano cambiato totalmente il volto del genere e, grazie alle intuizioni di un sempre maggior numero di artisti, il rock non era più semplicemente uno stile che doveva dar voce ai giovani meno impegnati: il rock aveva raggiunto il livello di arte e di musica colta. In particolare, verso la fine degli anni Sessanta si ebbe un'esplosione senza precedenti di opere che recidevano sempre più i ponti con il passato, modificando radicalmente il volto di tale genere e contaminandolo con distorsioni abrasive, libero assemblaggio di suoni e rumori, improvvisazioni e jam vicine al jazz.

È da questo background, ribollente di nuove idee e di ricerca di nuovi suoni, che si muovono due delle più importanti scene che avranno un ruolo fondamentale nell'evoluzione della musica, così diverse e al contempo così inscindibili per comprendere appieno il panorama di inizio anni Settanta: il progressive rock e, meno noto ma altrettanto fondamentale, il krautrock. Quest'ultima ineffabile definizione descrive una scena eterogenea e complessa, i cui esponenti hanno pochissimi elementi in comune l'uno con l'altro, fra cui (oltre alla provenienza teutonica, che ha denominato l'intero panorama, in opposizione alla provenienza prevalentemente inglese delle maggiori band progressive rock) la spasmodica ricerca verso la sperimentazione e il tentativo di trascendere i generi musicali del tempo. Tali obiettivi (comuni anche alla musica progressive) vengono conseguiti in un modo assolutamente diverso rispetto alla controparte anglosassone: a una certa autoindulgenza concettuale tipica di molti act progressive, i musicisti tedeschi preferiscono un approccio egualmente intellettuale per quanto meno pretenzioso, talvolta arrivando a vette anti-seriose degne del miglior Frank Zappa, mentre alle influenze derivate dal jazz modale, dalla musica sinfonica e dal folk si predilige un aggiornamento della psichedelia sfruttando le pionieristiche intuizioni di grandi artisti di musica contemporanea (classica, elettronica e d'avanguardia che sia), da Karlheinz Stockhausen a Jean-Claude Risset, da Pierre Henry a Morton Subotnick. Tra le band che hanno costituito le colonne portanti del krautrock e che hanno contribuito al meglio a renderlo uno dei panorami più eclettici e particolari della musica di quella decade, insieme ai celebri Amon Düül II, Can  e Neu!, va annoverato un altro complesso, che ha dato un apporto fondamentale per l'evoluzione del rock: i Faust.

L'origine del gruppo viene spesso "mitologicamente" ricondotta al desiderio di un giornalista musicale tedesco, Uwe Nettelbeck, di voler costituire un set di talenti per "fronteggiare" l'ascesa dei miti generazionali e musicali provenienti dall'Inghilterra e dagli USA, desiderio avveratosi con la nascita ex nihilo della band nel 1971 a Wümme. Mito non del tutto corretto, in quanto i Faust nascono ben prima grazie all'incontro di due gruppi ad Amburgo nel 1969, che avrebbero formato successivamente il nucleo dei Faust. Il primo di questi è il complesso dei Nukleus (che vede tra le proprie file Jean-Hervé Péron, Rudolf Sosna e Gunther Wüsthoff), impegnato nella composizione di brani e canzoni, mentre il secondo è quello dei Campylognatus Citelli, un ensemble di una decina di musicisti (tra cui spiccano Joachim Irmler, Werner "Zappi" Diermaier e Arnold Meifert) al contrario interessato alla sperimentazione del suono.

I due complessi si incontrano grazie alla ragazza di Diermaier e, dopo un periodo di prove insieme, Péron, Sosna, Wüsthoff, Irmler, Meifert e Diermaier decidono di costituire una band che implementasse a dovere il desiderio di comporre canzoni dei primi e l'interesse alla sperimentazione dei secondi, senza seguire pedissequamente il sentiero già tracciato da band americane che suonavano rock influenzato dal blues («First of all, we aren't blacks who express their suffering through the blues.»). Il gruppo così formato assume come proprio moniker Faust, nome tradizionalmente tedesco ma al contempo facile da ricordare per chiunque, scelto sia per analogia al noto personaggio di göthiana memoria («We felt like we were selling our souls to the music industry so it was a perfect fit.») , sia per riferimento alla politica intransigente e radicale che intende adottare, riconducibile a quella dei lavoratori tedeschi del Novecento (il cui simbolo era proprio un pugno, Faust in tedesco).

A questo punto, quando i Faust sono ormai realtà, entra realmente in scena il rispettato critico Nettelbeck: il giornalista in contatto con la Polydor, infatti, riceve dalla label stessa il compito di cercare dei talenti per competere con le band d'oltreoceano e, avendo sentito parlare di questo promettente sestetto, lo contatta per esaudire la richiesta dell'etichetta. I Faust accondiscendono alla proposta di Nettelbeck e così registrano una demo da proporre alla label come biglietto da visita, demo che impressiona parte dello staff della Polydor e permette al gruppo di ottenere un contratto di tutto rispetto: la band, infatti, ottiene la possibilità di comporre musica senza alcun tipo di pressione o costrizione esterna, nella più totale indipendenza artistica in uno studio a Wümme. Inoltre la Polydor paga pure un ingegnere del suono, Kurt Graupner, che progetta e costruisce per il gruppo delle black box con cui ogni membro della band può distorcere e modificare elettronicamente il suono del proprio strumento in tempo reale, utile sia per la composizione in studio sia per la riproposizione dei pezzi in sede live. Tutto questo viene concesso però a una condizione: i Faust devono rilasciare un full-length entro la fine del 1971.

Il risultato di questo tour de force si concretizza in due pezzi esplosivi, che fanno proprie le innovazioni e le intuizioni di gran parte dei generi della decade precedente: in un formato libero e free-form, debitore tanto dell'improvvisazione libera tedesca, sorta negli anni Sessanta grazie a musicisti del calibro di Peter Brötzmann e Alexander Von Schlippenbach, quanto delle sonorità più avveneristiche del rock anni Sessanta, i Faust sviluppano la loro musica ripartendo dai grandi capolavori della psichedelia, sia quella spaziale (Pink Floyd, The United States of America, Fifty Foot Hose e Silver Apples), sia quella più freak (The Monks, The Red Crayola, i momenti più surreali delle Mothers of Invention). Questa operazione non può prescindere però dalle conquiste del neonato progressive rock anglosassone: è così che i Faust si appropriano dell'espressionismo dei King Crimson di In the Court of the Crimson King e della carica sperimentale del jazz rock di Third dei Soft Machine. A questo sostrato rock, infine, il gruppo applica l'avanguardia di Karlheinz Stockhausen, Pierre Henry e Pierre Schaeffer, da cui riprendono, oltre al massiccio impiego della strumentazione elettronica, anche un metodo compositivo fatto di collage e mosaici di frammenti sonori, manipolati in fase di post-produzione. Questo vasto stuolo di referenze stilistiche, unito a un processo compositivo che rifugge la pretenziosità in favore di un umorismo ironico e iconoclasta degno di Frank Zappa (tanto da far pensare se nemmeno i Faust stessi prendano sul serio le loro creazioni), rende questi primi due brani come alcuni dei più creativi esempi di post-modernismo nel rock.

Ciò che rappresenta la side A del prossimo debutto dei Faust è inaugurato da Why Don't You Eat Carrots, che si apre con uno storico sampling di (I Can't Get No) Satisfaction dei Rolling Stones e All You Need Is Love dei Beatles, subito sommerso da una nube di effetti elettronici che annega i due brani in un oceano di rumorismi sempre più invadenti. Sembra quasi un manifesto programmatico dell'opera dei Faust: i simboli generazionali della musica popolare, come appunto i Rolling Stones e i Beatles, vengono travolti da una musica che si prefigge di superarli per raggiungere sonorità totalmente inedite.
Le dissonanze elettroniche si spengono improvvisamente: al loro posto, prende timidamente piede una melodia jazz di pianoforte, progressivamente più energica e sincopata, che prelude a una surreale parata circense che domina interamente la prima metà del pezzo. La marcia procede sotto la guida del sassofono di Wüsthoff, che intona un tema che sembra voler essere goliardico; eppure, le percussioni e le tastiere che fanno capolino tra i fraseggi di sax, insieme alle interruzioni di sola voce ed elettronica, rendono il tutto vagamente inquietante e grottesco, come se questa fosse una marcia bandistica eseguita da entità spettrali. Bruscamente, però, l'atmosfera si alleggerisce con un jazz rock ben più giocondo (vistosamente erede dei dischi jazz delle Mothers of Invention), con tanto di chitarra acida a ribadire la melodia del sassofono e sing-along ubriaco, quasi a parodiare quelli che hanno reso celebri gruppi come Beatles e Beach Boys. In tutto questo quadretto sardonico, alcuni sibili e turbinii elettronici, dapprima sepolti dalla parata strumentale, conquistano definitivamente la supremazia del brano, portando quel jazz rock in una dimensione aliena e gelida, in una versione leggera di Karlheinz Stockhausen. In un dualismo combattuto tra musica rock e musica colta, la seconda metà del brano vive di un conflitto tra la componente leggera e giocosa della prima e l'austerità della seconda, come se ognuna tentasse di sopraffare l'altra: ma dopo fasi alterne, è uno stridio elettronico che inghiotte la jam dei Faust, chiudendo il pezzo.

Propositi ben meno ironici mostra invece Meadow Meal, altro saggio di decostruzione della psichedelia, che fin da subito indulge in cacofonie, dissonanze e frammenti di musica concreta che gettano una luce ben più sinistra e intellettuale sulla musica dei Faust. Sospesi su un ipnotico tappeto di elettronica, entrano quindi in scena un onirico arpeggio di chitarra e alcune voci (manipolate anch'esse elettronicamente) che intonano un bislacco ritornello, prima che l'atmosfera cupa della prima metà del pezzo venga spazzata via dall'incalzare di una vera e propria jam session, molto più legata agli stilemi della psichedelia più tradizionale (in particolare è evidente l'influenza delle lunghe improvvisazioni dei Grateful Dead), con tanto di pirotecnico assolo di chitarra a guidare l'esecuzione del gruppo. Ripetuto una seconda volta il ritornello, il brano si conclude quindi in maniera apocalittica: sotto l'inquietante scrosciare della pioggia, i sintetizzatori intonano una melodia contesa tra le sinfonie spaziali dei corrieri cosmici e una funerea elegia per la distruzione del mondo.

Sfortunatamente per il sestetto, dopo la composizione dei primi due pezzi a seguito di una lunga serie di improvvisazioni e di prove, i Faust non hanno davvero più alcuna idea per concludere ciò che hanno intrapreso. È Irmler a trarre fuori il gruppo da questo impasse («We worked very hard on this, it was the whole of side one, and then we just ran out of steam. When the train came to a halt and we had no idea what to put on the second side, the inspiration came to me—we already have the second side!»): riceve il permesso dai compagni della band di fare ciò che meglio crede e comincia così - con la collaborazione di Graupner - a estrapolare materiale dai nastri che contenevano le registrazioni di varie sessioni di prove del complesso, rimaneggiandole e assemblandole in modo da costituire una side B.

Prende quindi vita l'ultimo pezzo del lavoro dei Faust, il capolavoro Miss Fortune, lungo mosaico di oltre sedici minuti che immortala varie prove del gruppo, legandole tra loro tramite un sapiente lavoro collage delle registrazioni e quindi distorcendole elettronicamente, trasformando semplici improvvisazioni psichedeliche e freak out assurdi in un'opera visionaria.
Da una turbinosa overture elettronica scaturisce ben presto una jam session che, corrotta dalle distorsioni di chitarra e dai cacofonici effetti delle black box, si concretizza in una selvaggia orgia di rumori e dissonanze, diretta discendente della leggendaria Sister Ray dei Velvet Underground. Chiusa quindi da un ultimo exploit batteristico di Zappi, l'improvvisazione collettiva si arresta, concedendo nuovamente spazio all'elettronica che porta alla luce una nuova sessione della band, questa volta alle prese con una rozza esibizione corale, sostenuta dagli effetti di chitarra e dal pianoforte. In un compenetrarsi tra strumenti tradizionali ed effetti elettronici avveniristici, i Faust si lanciano dunque in una seconda improvvisazione, ancora parente della psichedelia anni Sessanta nelle strutture, per quanto deformata e corrotta indelebilmente dall'esecuzione dell'ensemble e dalle nuove tecnologie di registrazione e manipolazione dei suoni. È quindi nuovamente il pianoforte il protagonista, ora improvvisato conduttore della volgare prestazione corale precedente, ulteriormente sguaiata, stonata e delirante, prima che un organo claudicante entri in scena, disturbato dal continuo stridere elettronico, tentando a fatica di abbozzare una melodia che, una volta indovinata, si spegne nel vuoto cosmico.
Miss Fortune si avvia verso la sua conclusione: dal nulla, due attori (ognuno corrispondente a un diverso canale audio) si esibiscono nell'ultimo, commovente minuto di Faust. Su un'onirica progressione di chitarra, i due, parola per parola, recitano una breve poesia esistenziale:

«Are we supposed to be or not to be,
Said the angel to the queen.
I lift my skirt when Voltaire turns as he speaks,
His mouth full of garlic white, yes, white.
Misfortune of us two he told you to be free and you obeyed.
We have to decide what is important,
A war we never see or a street so black that babies die.
Our system and our theory or our wish to be free.
To organize, and analyze, and at the end realize that...»

Il climax giunge infine con l'ultima frase, quando entrambi gli interpreti suggellano la fine del collage pronunciando contemporaneamente, quasi a voler riassumere il senso dell'esperienza Faust:

«Nobody knows if it really happened.»

Le tre composizioni vengono così raccolte nell'epocale debutto Faust, pubblicato a fine 1971, come previsto nel contratto discografico, in un formato che diverrà successivamente tradizionale nell'ambito progressive (due lunghe composizioni su una facciata e un brano più corposo nell'altra). Inoltre, il vinile si distingue per la sua più totale trasparenza (confezione, booklet e vinile stesso sono infatti trasparenti), tanto da meritarsi l'appellativo di Faust Clear dai fan, nonché per l'artwork su cui troneggia ciò che diverrà il marchio di fabbrica della band negli anni a venire: una gigantesca radiografia di un pugno chiuso.
Ma oltre al formato, l'album è prima di tutto uno dei più fulgidi e importanti esempi di rock sperimentale degli anni Settanta, vista la sua proposta innovativa e pionieristica (anche rispetto alla media della scena krautrock): i Faust propongono uno standard di psichedelia d'avanguardia mai visto prima, che, ripartendo dai musicisti degli anni Sessanta, conia un linguaggio inedito, ammaliato dalle recenti conquiste dello spazio (che proprio in quegli anni, sempre in Germania, porteranno ai maggiori lavori della kosmische Musik ad opera di Popol Vuh, Tangerine Dream, Cluster e Klaus Schulze) quanto intimamente segnato dalla condizione geopolitica della Guerra Fredda e di un'imminente catastrofe nucleare. Non è un caso che questo disco avrà maggiore eco proprio sui musicisti che tra gli anni Settanta e gli anni Ottanta canteranno la crisi definitiva della civiltà occidentale, nel panorama industriale (Throbbing Gristle, Einstürzende Neubauten e Nurse With Wound) quanto in quello new wave (Suicide, Pere Ubu e This Heat), anche se la sua influenza, concettuale e musicale, può essere di fatto rintracciata in numerosissimi musicisti successivi, dall'avanguardia dei Residents e Rake al post-rock di Trumans Water e Stereolab.
Con questa pubblicazione, la band ascende immediatamente tra i più grandi artisti del rock tedesco di sempre.

Nonostante l'elevatissima qualità dell'opera, però, la label rimane spiazzata dal lavoro dei Faust, e con essa il pubblico tedesco: il disco, a causa della sua eccessiva sperimentazione, è un flop commerciale, con solo mille copie vendute in Germania (seppur ottenendo il meritato plauso dalla critica inglese) e, seppur nel primo anno venda complessivamente intorno alle ventimila copie, il risultato non soddisfa la Polydor, che al contrario ripone nei Faust ambizioni commerciali al pari di quelle dei Beatles. L'unico motivo che trattiene l'etichetta dal liquidare la band si rivela quindi un articolo del New Musical Express ("commissionato" da un Nettelbeck disperato), che tesse le lodi del gruppo e del loro debut, ma non basta comunque a garantire ai Faust - nell'ottica di un secondo full-length - la stessa indipendenza artistica che aveva permesso la pubblicazione di un'opera come l'esordio omonimo.

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