Thomas Fisher: electronics, keys, guitar
Daniel Copeman: electronics, guitar
Rachael Davies: vocalist, percussionist
- Iceland Spar
- Slow Wave
- When The Head Splits
- Shimmering
- Deathwaltz
- Yellow Wood
- Despair
- Putting Down The Prey
- The Fall of Glorieta Mountain
- Smashed To Pieces In The Still Of The Night
Wash the Sins Not Only the Face
Uscire dal loop degli ascolti compulsivi che scatena Wash The Sins Not Only The Face, ultimo lavoro di Esben And The Witch, forse è anche possibile; cercare di uscire da quella foschia, da quella nebbia onirica che durante quegli ascolti tutto avvolge, proprio non si può.
Il trio di Brighton, qui alla seconda prova su lunga distanza dopo Violet Cries del 2011, compie un passo di grande valore artistico ma con grazia ed in punta di piedi, senza destarci da quel dormiveglia dorato in cui colmi di speranze, paure e desideri, ci confondiamo.
Abbiamo così lasciato quei paesaggi oscuri ed affascinanti, densi di suggestioni post-punk e di riferimenti ad un passato dark wave (comunque già allora metabolizzati in un presente sonoro lontano da tentazioni revivaliste) per addentrarci in un’altra foresta apparentemente meno spettrale ma non meno ricca di simboli.
Se prima le lezioni dei maestri del gotico (soprattutto musicale) erano già ben presenti nelle trame dei brani di Rachel, Thomas e Daniel, ora, in chiave più letteraria, poetica e fors’anche filmica, continuano lo stesso ad esserlo, ma con più grande respiro. Ora si comprendono meglio le differenze tra gotico e goth cui alludono i ragazzi. Meno Cranes e più David Lynch per esemplificare in qualche modo.
Già lo spumeggiare impetuoso di Iceland Spar sembra significativo per inaugurare questo nuovo corso: finalmente si riutilizza una grammatica shoegaze senza fini retorici, senza la necessità di glorificare alcunché. Le successive Slow Wave e When That Head Splits fanno ancora meglio con il loro vocabolario dream-pop dal quale sottraggono le pagine più tronfie per restituirci una versione asciutta e disincantata dei Cocteau Twins.
In questo percorso la vegetazione che si incontra ed i cieli che sovrastano queste distese non hanno i colori acidi del primo album; tutto sembra piuttosto stemperarsi nelle calde tonalità seppiate, quasi ruggine, della copertina e negli smalti blu che riflettono preziose screziature nella voce di Rachel.
Il primo episodio sensibilmente più cupo, Shimmering, è al contempo anche il più etereo fin’ora e quell’arpeggio struggente che lo sorregge, se da un lato non può non far pensare alle vestali del dark rock di ogni tempo, dall’altro rimanda ai mondi lontanissimi di Meg Baird e dei suoi Espers, a quella narrazione fiabesca e silvestre dagli antichi toni folk, con il vantaggio che Esben and The Witch lo fanno qui ed ora, senza perdersi in nessun remoto bosco della memoria.
Deathwaltz a dispetto del nome ha un’anima quasi pop talmente ben velata che la struggente cavalcata in cui viene abilmente condotta dai nostri allontana da ogni cattivo pensiero. Si arriva senza fiato nello Yellow Wood che è invece un giardino delle delizie, un posto stregato in cui sembra di scorgere le sagome dei Black Tape For A Blue Girl e dei Pink Industry fare capolino dai rami; saremo poi risvegliati dalla lieve rugiada elettronica, björkiana di Despair e di nuovo inquietati dai grandi spazi vuoti di Putting Down The Prey che sospendono in un silenzio gravido di presagi il lamento di Rachel.
The Fall Of Glorieta Mountain è forse l’episodio più convenzionale dell’album poiché la sua struttura semplice e scarna può ricordare più di una songwriter contemporanea del panorama alt-folk, ma il suo grado di dolcezza è tale da amalgamarla perfettamente nel contesto del disco.
D’accordo, non c’è ‘nuova musica’ in Wash The Sins Not Only The Face, album dal titolo draconiano, ma c’è finalmente una raccolta di canzoni che rapisce dall’inizio alla fine in uno stile sobrio ed essenziale che non rinuncia ad una narrazione sognante.
C’è poi – come valore aggiunto - l’idea che l’asfittico linguaggio dark ottantiano che fino ad oggi ha campato di rendita dovrà (finalmente) confrontarsi con qualcosa ed al momento non trovo nulla di più appropriato di quest’album. Allo stesso modo le pulsioni passatiste di shoegazers impenitenti e pop-dreamers fuori tempo massimo, grazie agli Esben dovrebbero (almeno lo si spera) essere ridimensionate.
Guardare sì alle vestigia del passato, alla casa Usher che non crolla perché è dentro di noi, ma da lontano.. possibilmente.