- Jenny Conlee - Piano
- Chris Funk - Chitarra
- Colin Meloy - Voce, Chitarra
- John Moen - Batteria
- Nate Query - Basso
Guests:
- Peter Buck - Chitarra in 1,2,6
- Gillian Welch - Voce in 6
- Laura Veirs - Voce in 6
- Annalisa Tornfelt - Violino in 1,2,6
- Dave Rawlings - Voce in 6
- Tucker Martin - Percussioni in 1,2,6
1. Don't Carry it All
2. Calamity Song
3. Rise to Me
4. Rox in the Box
5. January Hymn
6. Down by the Water
7. All Arise!
8. June Hymn
9. This Is Why We Fight
10. Dear Avery
The King is Dead
A volte la musica può mettere in difficoltà pure artisti o formazioni da tempo collaudate.
Se poi hai già inciso un mezzo capolavoro, ecco che le cose si complicano.
Nella situazione di quanto scritto troviamo nel 2011 i Decemberists, alle prese con The King Is Dead, il sesto album della band, il terzo sotto etichetta Capitol.
Infatti Picaresque, album di folk/rock dal sapore tradizionale e disco fino ad ora meglio eseguito dal gruppo di Portland, è da ben cinque anni che si dimostra un peso ancora da smaltire appieno.
Sì, perché The Crane Wife costituì un degno seguito dal suono più indie/rock, mentre The Hazards of Love, dai ritmi più rock, non riuscì a centrare i cuori dei fan, risultando un fardello da smaltire in fretta, anche se composto da qualche pezzo meritevole.
Ecco che allora la scelta di incidere un disco come The King Is Dead risulta più chiara, visto che questo album ha caratteristiche ben diverse dal precedente.
In questo nuovo atto infatti il gruppo abbandona l' idea del concept album ad ogni costo, producendo quello che in se e per se è il loro disco più americano.
Un ritorno alle già tanto lodate radici del folk acustico di matrice cantautoriale, che senza accettare alcun compromesso si abbassano ad un lavoro duro ma allo stesso tempo maggiormente melodico.
I soliti accordi triti e ritriti producono melodie tradizionali, gestite al meglio nei pezzi di punta, con organetto, violini ed una struttura tutta ritornello e percussioni che porta ben presto l' ascoltatore a partecipare attivamente nei cori.
Aggiungete dolcissimi pizzichi alle chitarre, e sarà come essere a casa.
La loro, a Portland, magari fuori città con la foresta buia da una parte ed un perenne sole dall' altra, come da copertina.
Si parlava del fattore americano: guarda caso spunta il nome di Peter Buck, chitarrista dei R.E.M. e presente in tre brani, Don't Carry It All, Calamity Song e Down By The Water.
Alla fine quelli meglio eseguiti, pieni di una insolita verve per i Decemberists, ma comune per Peter Buck.
La prima, come da tradizione, sfoggia un sound degno del migliore Greenwich Village, arricchito da strumenti quali violini che sottolineano certamente la voglia di evolversi dallo status di folk band; anche se il ritmo è ripreso da una vecchia conoscenza della musica canadese(gli Arcade Fire precisamente, confrontate Wake Up con questa), la traccia sa essere fresca e dal tono positivo.
La voce è chiara, forte e davvero adatta ad un tipo di musica come questa; un esempio è Calamity Song, dove la chitarra acustica non ha lo stesso sapore di quella di Kristian Matsson( The Tallest Man on Earth), più ruvida e Dylaniana, ma bensì ci fa pensare ai migliori suoni americani, con quel ritmo tutto all' insegna del country rock.
Rise to Me successivamente ha il sapore della bella pop song, con quel ritornello abbindolatore e l' organo posto a metà brano per spezzare il ritmo.
Rox in the Box fa sorgere il dubbio che questi tizi conoscano i Modena City Ramblers, con quel suo incedere tipico della band nostrana, qui cantata però con fare di chi vuole scalare le classifiche.
Dopo una January Hymn dal tipico gospel dei Low Anthem ma col fattore yankee sempre ben in vista, arriva una Down by the Water pompata al punto giusto, con tanta voglia di fare e strafare.
Il coro della cantautrice Laura Veirs in questo brano è l' ideale contrapposizione all' altrettanto adatta voce di Colin, che dell' andatura spedita fa un finto credo, visto che gran parte delle fortune vengono riposte sul cantato maschile/femminile.
All Arise! fa del violino un' arma di distruzione di massa, portando a casa il risultato della dolce armonia con uno dei ritmi meno originali che potessero mandare in scena.
Nel finale - ormai apertamente senza sorprese - da registrare solo una This Is Why We Fight che ancora una volta fonde alla perfezione musiche tradizionali e testo tipicamente pop, anche se composto da uno spunto di maturità qui.
E poi arriva la fine, dove i Decemberists tirano un lungo sospiro di sollievo.
Perché la musica sembrava averli messi in difficoltà, e loro hanno gettato al vento ogni concept, ogni minuzioso dettaglio(non riempitivo) per buttarsi su ciò che riusciva loro fare meglio al momento: d' altra parte la fama acquisita gli ha permesso di "acquistare" un fuoriclasse come Peter Buck, e loro, giustamente, ne hanno approfittato.
Incidendo dieci tracce che emanano un forte profumo di ottimismo, basate però su ritmi semplici copiati e incollati senza alcuna pietà.
Recitando lo slogan di un noto spot di scommesse, i Decemberists con questo The King Is Dead hanno voluto vincere facile.