Dan Weiss Large Ensemble:
- Dan Weiss - Batteria
- Judith Berkson - Voce
- Lana Cencic - Voce
- Maria Neckam - Voce
- Miles Okazaki - Chitarre
- Thomas Morgan - Basso
- David Binney - Sassofono alto
- Ohad Talmor - Sassofono tenore
- Jacob Garchik - Trombone, tuba
- Ben Gerstein - Trombone
- Katie Andrews - Arpa
- Matt Mitchell - Glockenspiel, organo, piano
- Jacob Sacks - Piano
- Stephen Cellucci - Percussioni
1. Fourteen Part One
2. Fourteen Part Two
3. Fourteen Part Three
4. Fourteen Part Four
5. Fourteen Part Five
6. Fourteen Part Six
7. Fourteen Part Seven
Fourteen
Il batterista statunitense Dan Weiss (4 marzo 1977) è attualmente uno dei musicisti emergenti più promettenti del panorama del nuovo jazz.
Dopo aver collaborato con alcuni dei più quotati jazzisti contemporanei (quali Rudresh Mahanthappa, David Binney e Rez Abbasi), Weiss si è fatto notare dalla critica specializzata per il suo approccio batteristico innovativo, dovuto ai suoi studi decennali della tabla e della musica classica indiana con il virtuoso Pandit Samir Chatterjee, dissezionato ampiamente in lavori come Tintal Drumset Solo e Jhaptal Drumset Solo (dove, accompagnato solamente dal chitarrista Miles Okazaki, proponeva materiale per tabla riarrangiato sulla batteria, rovesciando il ruolo melodico e ritmico di chitarra e percussioni) e quindi integrato in uno stile più vicino al post-bop su Now Yes When e Timshel, affiancato questa volta da Jacob Sack al piano e Thomas Morgan al basso.
Nel 2014 Dan Weiss giunge all'esordio per la Pi Recordings con la sua opera finora più creativa e ambiziosa.
Fourteen è infatti una suite in sette movimenti senza titolo che, avvalendosi di un ensemble di (appunto) quattordici musicisti - tra cui figurano David Binney al sax alto, Matt Mitchell al piano, Miles Okazaki alla chitarra acustica ed elettrica, oltre a un sassofono tenore, due tromboni, una tuba, un basso, e perfino un'arpa e tre voci femminili -, sfodera una varietà di linguaggi e umori inedita nell'opera di Weiss, che per la prima volta veste innanzitutto il ruolo di compositore e direttore di big band, prima che quello di semplice strumentista. Per quanto infatti la sua prestazione tecnica sia senza dubbio ancora una volta brillante e ispirata, Fourteen non è più un semplice pretesto per sfoggiare i risultati dei suoi studi sulle possibilità della batteria (come poteva esserlo un Tintal Drumset Solo), bensì un set di composizioni accuratamente strutturate e arrangiate in ogni minimo dettaglio, in cui l'intervento di tutti gli strumenti è studiato strategicamente per potenziare l'impatto corale della suite, senza che nessuno di questi prevalichi sugli altri acquisendo un ruolo di "leader". Perfino le voci, non pronunciando alcuna parola per tutta la durata dell'album, si limitano a volteggiare elegantemente in sofisticate architetture vocali (invero più simili a quelle mostrate da complessi avant-prog come gli Art Bears piuttosto che a quelle dei cantanti jazz) come fossero semplici strumenti dell'ensemble.
Tale approccio rievoca quello delle composizioni per big band di Carla Bley, anche per via delle disparate influenze che affiorano dalla musica di Fourteen: attingendo non più dalla sola musica jazz e da quella classica orientale che hanno sempre contraddistinto lo stile di Dan Weiss, le sonorità della suite sembrano mostrare debiti stilistici anche con il progressive rock (specialmente le frange più surreali e sperimentali del Rock in Opposition e della scena di Canterbury), con il minimalismo (soprattutto nella ripetizione delle figure melodiche che caratterizzano tutta la suite) e finanche con il metal (in particolare, l'esecuzione di Weiss mostra talvolta l'influenza di Tomas Haake dei Meshuggah, band di cui Weiss è dichiaratamente un ammiratore).
Il primo movimento, uno dei più belli di tutta la suite, è anche uno dei più controllati e strutturati. L'idea di partenza è un tema lacustre di poche battute del solo pianoforte, ripetuto per tutta la durata del pezzo, ma di volta in volta arricchito dall'intervento di nuovi strumenti e dal progressivo addensarsi di intricate sottotrame musicali (prima la ritmica scandita da basso e batteria, quindi la chitarra acustica a ribadire il tema di piano, fino al climax conclusivo tra fraseggi canterburyani di sassofono, acidi assoli di chitarra elettrica e controcanti delle tre voci femminili). L'organo fortemente distorto (che la label indica come il probabile organo con cui fu registrata originariamente In-a-gadda-da-vida degli Iron Butterfly) introduce quindi alla seconda parte della suite, dominata inizialmente da un tenue duetto di chitarra acustica e arpa (colorato da sporadici interventi dei fiati e del glockenspiel), prima che lo sfarfallio dei piatti e le voci (contrappuntate da basso e pianoforte) conducano il pezzo in un ben più surreale esercizio vocale, con Weiss a mantenere il ritmo battendo le mani.
Il terzo movimento è forse quello più visibilmente influenzato dagli studi indiani di Weiss, che si esibisce anche nella tecnica vocale del konnakol, prima che il pezzo ceda il passo ai feroci assoli di sassofono di Binney e di Ohad Talmor. Tale irruenza esecutiva viene conservata anche dal brano successivo che, con i fiati ad accompagnare la marcia di chitarra elettrica, basso e batteria, sembra voler offrire un'interpretazione più dura dei King Crimson di Larks' Tongues in Aspic.
La quinta sezione di Fourteen, una fanfara di trombone e sax, segna quindi una pausa di assestamento e un preludio al vorticoso jazz rock della sesta parte che - tra le voci che riprendono il tema della sezione precedente, i robusti interventi ex abrupto di piano, organo, ottoni e chitarra, e infine gli assoli di pianoforte e di sassofono che si rincorrono vicendevolmente - rappresenta forse il secondo vertice della suite insieme al movimento di apertura, nonché il momento in cui appare più evidente la maturità come orchestratore raggiunta da Dan Weiss.
La conclusione si tinge infine di un inedito intimismo, con solo le voci, la tuba e la chitarra ad accompagnare la minimale elegia del pianoforte.
Quest'ultima mostra però anche uno dei principali difetti del disco: Weiss si trova certamente più a suo agio nelle composizioni più schizofreniche e dinamiche, zoppicando invece nei momenti in cui l'album cerca di distendere l'atmosfera. Nonostante questo, e nonostante una certa autoindulgenza che affiora qua e là durante l'ascolto (specialmente in corrispondenza degli interventi vocali), che pure è necessaria visto l'ambiziosissimo obiettivo, Fourteen si colloca tra gli esempi di musica totale più creativi e coraggiosi dell'anno, che manipolando elegantemente le tecniche provenienti dai più disparati generi musicali offre una proposta stimolante tanto agli ascoltatori di musica classica, quanto a quelli di musica jazz, quanto a quelli di musica rock.