Tatsu Mikami - basso
Hideki Shimizu - batteria
Tomohiro Nishimura - chitarra
Yoshiaki Negishi - voce
1. Killfornia (Ed Kemper) - 8:23
2. Ripping into Pieces (Peter Sutcliffe) - 7:46
3. Megalomania (Herbert Mullin) - 5:26
4. Green River - 4:30
5. Cities on Flame - 4:00
6. Master of Brutality (John Wayne Gacy) - 11:16
Master of Brutality
I Church of Misery sono una band formatasi a Tokyo nel 1995; lungo i primi anni di gavetta hanno pubblicato alcuni lavori per misconosciute etichette indipendenti (tra i quali il bootleg Vol 1 nel 1997, e nel 1998 lo split Born Too Late assieme ai canadesi sHEAVY, il riccamente groovy EP Taste the Pain, e il live autoprodotto Live from the East), fino ad approdare alla Man's Ruin Records di Frank Kozik con l'EP Murder Company (1999), incluso anche in uno split album con gli Iron Monkey.
Questi lavori li hanno subito fatti notare come brillanti discepoli orientali degli Sleep.
Il vero debutto su full-length arriva, dopo un cambio di vocalist e drummer, con Master of Brutality (Southern Lord Records, 2001), un originale e trascinante approccio al panorama del rock "stoner" (oltre che un palese omaggio-parodia del più celebre Master of Reality blacksabbathiano).
Le coordinate musicali del nuovo quintetto (Yoshiaki Negishi alla voce, Tatsu Mikami al basso, Junji Narita alla batteria, Tomohiro Nishimura alla chitarra) sono orientate non tanto verso il tipico stoner psichedelico alla Kyuss, bensì verso il doom più sporco e vicino allo sludge, un po' come i contemporanei High on Fire; sorta di incrocio perfetto tra le due correnti grazie ad una palese componente southern-blues che suona incredibilmente molto più "americana" e genuina rispetto a quella di tanti colleghi statunitensi, i quattro giapponesi riprendono molto anche dagli Sleep, più che dai loro connazionali stoner Eternal Elysium (dai quali li divide una radicalizzazione sonora e stratificata delle tessiture chitarristiche e una voce che, lungi dal cercare aperture melodiche epiche, suona piuttosto motörheadiana) o Boris (questi ultimi ancora molto più legati al drone-doom degli Earth e allo sludge dei Melvins).
Anche se il disco riprende un'idea non troppo originale, ovvero quella di associare la maggior parte dei testi a noti serial killer (già utilizzata, ad esempio, dai Macabre), la proposta musicale si rivela probabilmente la più coinvolgente dell'anno nel genere, grazie a lunghe composizioni guidate da riff-killer sporchi e hendrixiani, specialmente nelle ruggenti iniziali Killfornia (Ed Kemper), lunga 8 minuti e mezzo, e Ripping into Pieces (Peter Sutcliffe), più sincopata ma ugualmente sviluppata per altri 8 devastanti minuti.
Le aperture melodiche quasi psichedeliche della più breve Megalomania (Herbert Mullin) rimandano per la prima volta ai Kyuss di Josh Homme, e vengono seguite dall'azzeccato intermezzo atmosferico Green River, immerso in una tensione da thriller grazie al dialogo tra percussioni e chitarre effettate.
Il difetto principale dell'album è la produzione, ancora relativamente acerba; ma forse anche le due tracce in chiusura, a conti fatti, non riescono a raggiungere i livelli dei migliori momenti precedenti: Cities on Flame è difatti una cover della classica Cities on Flame with Rock and Roll dei Blue Öyster Cult (1972), a sua volta sin troppo simile alla poco precedente The Wizard dei Black Sabbath (1970), mentre la conclusiva title-track finisce per autodistruggersi volontariamente, ristagnando in un magma anche troppo paludoso, eccessivamente rallentato in stile doom e abbinato ad un lavoro di chitarra e voce aggressivo ma non abbastanza ispirato da giustificare una lunghezza di ben 11 minuti.
Nonostante tali pecche, l'esordio della band è senza dubbio positivo: con Master of Brutality lo stoner trova la sua prima voce asiatica davvero all'altezza dei corrispettivi americani, e, nonostante il "genere" relativamente statico, arriva a reinventarlo con uno stile straziato, acido e corrosivo, oltre che ancora abbastanza acerbo da lasciar anche sperare in un miglioramento futuro.