- Damon Albarn - organo, synth, pianoforte, voce, melodica, campane
- Graham Coxon - synth, chitarra, tamburello, cori
- Alex James - basso
- Dave Rowntree - batteria
1. For Tomorrow (04:19)
2. Advert (03:45)
3. Colin Zeal (03:16)
4. Pressure on Julian (03:31)
5. Star Shaped (03:26)
6. Blue Jeans (03:54)
7. Chemical World (03:45) + Intermission (02:29)
8. Sunday, Sunday (02:38)
9. Oily Water (05:00)
10. Miss America (05:34)
11. Villa Rosie (03:55)
12. Coping (03:24)
13. Turn It Up (03:21)
14. Resigned (05:14) + Commercial Break (00:55)
Modern Life Is Rubbish
I Blur nascono nel 1988 a Londra, a partire da una piccola band di nome Seymour (dal racconto Seymour: An Introduction di Salinger).
Notati dalla Food Records dopo un anno di attività live, nel 1990 vengono messi sotto contratto a condizione di cambiare nome: da una lista preparata dalla label, i musicisti scelgono il nuovo nome Blur.
Dopo aver aperto per i The Cramps, hanno un buon successo di vendite con il singolo di debutto She's So High, un avvolgente e lezioso aggiornamento dei vecchi singoli psychedelic-pop britannici. Grazie all'affiancamento dei produttore Stephen Street, vengono scritti e pubblicati anche altri due singoli, There's No Other Way e Bang.
Il loro primo album Leisure (Food/EMI, 1991) è un lavoro decisamente trascurabile, che raccoglie i tre orecchiabili singoli in un full-length e per il resto è costituito da riempitivi che tentano di capitalizzare senza guizzi sul successo del sound shoegaze e Madchester; la band a questo punto della carriera pare non avere una propria formula, sembra invece la solita "next big thing" mandata avanti da un paio di innocue melodie orecchiabili che dicono spudoratamente cose già dette 10, 20, 30 anni prima.
Le potenzialità del quartetto usciranno tuttavia allo scoperto durante la registrazione del secondo album in studio, Modern Life Is Rubbish (Food/EMI, 1993), che nasce in seguito ad un tour compiuto negli USA per recuperare i propri debiti, viaggio che fa nascere nei quattro diversi dubbi sul lifestyle americano, e allo stesso tempo solleva alcune tensioni interne. Tornati nello UK, dopo un anno a lavorarci sopra, nessun produttore sembra tuttavia disposto a lanciare il disco; tocca loro rivolgersi nuovamente a Street, il quale li obbliga ad inserirci dentro una hit palesemente mainstream (l'iniziale For Tomorrow), mentre la casa di distribuzione statunitense (la SBK) protesta a sua volta per volere l'inserimento di una hit più in linea con le tendenze americane (Chemical World), per poi pretendere di far registrare daccapo tutto l'album con la produzione di Butch Vig (Nirvana, Sonic Youth) per renderlo più appetibile al pubblico del rock alternativo (ma su questo punto la band rifiuterà).
Trascurando i due sopraccitati singoli (catchy e accattivanti, ma poco rappresentativi come parametri artistici del lavoro), si può dire che i Blur abbiano raggiunto un'insperata maturità, e siano riusciti ad assimilare influenze che vanno decisamente al di là di ciò che i loro producer originariamente volevano far credere al pubblico. In particolare si nota come certe tendenze grunge, noise e alternative rock (dovute al viaggio negli USA) vengano rimasticate e integrate in formule musicali tipicamente "british", operazione di cui in realtà era già testimone il singolo Popscene (con il suo unire chitarre graffianti dalle suggestioni punk a fiati da orchestra e hook melodici in stile The Kinks), uscito nel 1992 e poi non incluso nell'album, e che lungo questo full-length tocca il massimo equilibrio nelle catchy Advert, Star Shaped e Sunday, Sunday; ma vi sono anche momenti più burrascosi, in cui feedback e distorsioni balzano in primo piano, come Pressure on Julian, Chemical World / Intermission (con un galoppante innesto pianistico che verso la fine aumenta di velocità parallelamente all'aumentare delle distorsioni) e Oily Water (il momento che più di tutti tradisce una seppur lontana parentela con shoegaze e post-rock). Tra i momenti dominati dalle chitarre acustiche, spicca invece la ballad Miss America.
L'album diventa rapidamente un successo nazionale, e in retrospettiva può essere indicato come il primo album di quel filone pop-rock melodico definito "brit-pop", che tanti quattrini farà fare ai produttori inglesi tramite massicce campagne marketing, "next big thing" lanciate a ripetizione, e riproposizione sino alla nausea di una limitata serie di idee musicali, tra l'altro fin troppo spesso derivanti da British Invasion e The Smiths.
Effetti collaterali che non risparmieranno i Blur, i quali, con il successivo lavoro Parklife (1994), e ancor più con The Great Escape (1995), si lasceranno trascinare nel danaroso vortice del brit-pop esploso principalmente per mano loro, invece di imporsi come gruppo di pop-rock alternativo (scelta che verrà intrapresa in seguito, verso il 1997) ed approfondire gli spunti alternative-rock accennati in realtà fin da questo interessante lavoro.