Voto: 
6.5 / 10
Autore: 
Gioele Nasi
Genere: 
Etichetta: 
XL Recordings
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Devendra Banhart
- Noah Georgeson
- Luckey Remington
- Pete Newsom
- Greg Rogove
- Rodrigo Amarante
- Andy CabicT

 

Tracklist: 


1. Cristobal (ospite: Gael García Bernal)
2. So Long Old Bean
3. Samba Vexillographica (ospite: Chris Robinson)
4. Seahorse
5. Bad Girl
6. Seaside
7. Shabop Shalom (ospite: Nick Valensi)
8. Tonada Yanomaminista
9. Rosa (ospite: Rodrigo Amarante)
10. Saved
11. Lover
12. Carmencita
13. The Other Woman
14. Freely
15. Remember
16. My Dearest Friend
 

Devendra Banhart

Smokey Rolls Down Thunder Canyon

Eccolo qui, l’attesissimo nuovo album del menestrello Devendra Banhart, per la seconda volta pubblicato dalla XL Recordings: registrato fra le montagne di Santa Monica, con il suo oramai consolidato ensemble ed alcuni ospiti nei brani-chiave, “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” si propone di estendere ancora di più la popolarità dell’artista ch’è stato capace di guidare la scena del pre-war Folk degli anni scorsi (grazie a capolavori del calibro di “Rejoicing in the Hands” e “Nino Rojo” del 2004), prima di evolversi e spostarsi su territori elettrici e Rock con il recente “Cripple Crow” (2005), disco che ha letteralmente diviso gli ammiratori di Banhart: per alcuni, l’album che ha portato nuova, vitale linfa ad un progetto musicale in procinto di stagnare , per altri l’episodio che ha segnato l’abbandono di uno stile in cui Devendra era assoluto maestro in favore di un nuovo corso, meno significativo.

“Smokey Rolls Down Thunder Canyon”, com’era prevedibile, continua quel discorso di espansionismo stilistico iniziato dal proprio immediato predecessore, andando a toccare un numero spropositato di generi e situazioni sonore differenti, dal Folk cantautorale al Reggae, alla musica brasiliana, alla Psichedelia, al Rock ‘vintage’ degli anni Cinquanta, a quello classico dei Sessanta; la produzione, ricercata nella sua approssimazione volutamente lo-fi, dona un retrogusto di antico e ‘vissuto’ ad un Devendra straordinariamente eclettico, che non si pone limite alcuno e flirta sornione, con consumata malizia, con le più disparate tendenze musicali d’epoca.
Tra queste, spicca l’inclinazione (progressivamente ampliatasi nel corso delle sue ultime pubblicazioni) del cantautore cresciuto in Venezuela ad avvicinarsi alle sue radici latino-americane ed alla Tropicalia: “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” mostra il definitivo exploit di questa tendenza fin dall’iniziale, ottima, “Cristobal”, melanconica kermesse di fantasmi desertici da missione spagnola abbandonata da secoli, lussureggianti panorami tropicali e crepuscolari tramonti sui golfi oceanici; chitarre e banjo, doppia voce in spagnolo (suo accompagnatore è Gael García Bernal), docili percussioni e tante melodie sognanti sono gli ingredienti utilizzati dal barbuto artista texano per esplorare questa dimensione sudamericana, protagonista anche nella ritmata “Samba Vexillographica” (quale stile sia qui affrontato lo capite anche da soli, no?) e nella dolce e triste ballata “Rosa” (cantata in portoghese e guidata dal pianoforte); “Carmensita”, al contrario, mescola sensualità latina con la calda elettricità del Rock, con tanto di assolo à-la Carlos Santana nel finale.

A sbancare su questo nuovo platter (così come in “Cripple Crow”) sono comunque gli anni ’60, con influenze Psych Rock/Folk sparse generosamente nel corso del disco, ed in particolare nella psichedelica, interessante suite (otto minuti) “Seahorse”, riecheggiante i Love (nelle sezioni acustiche) e i Jefferson Airplane (in quelle elettrificate), nonché i Doors (nelle parti vocali dopo il sesto minuto): al di là di un certo ‘citazionismo’ stilistico, si nota un Banhart capace di dire la sua (si senta la gustosa, trascinante “Tonada Yanomaminista”) anche in ambientazioni musicali lontane da quelle dell’era Young God; ascoltando “Smokey...” nella sua interezza, però, ci si accorge anche di come la crescita del  nostro sia frenata dall’incapacità di dare al disco una personalità forte, coerente ed unitaria, e limitandolo a semplice collage di sonorità che a volte cozzano l’una con l’altra. Si aggiunga che in una situazione del genere emergono, vistose, anche le pecche di stanchezza in fase di composizione: diversi episodi di questo platter si dimenticano facilmente (il Pop-Rock positivo e banalotto di “Lover”), mentre altre canzoni non sono dotate del fascino sufficiente per colpire nemmeno durante l’ascolto: è il caso di “Bad Girl”, sinceramente troppo noiosa, e della successiva, soporifera “Seaside”, sconcertante per come mostra un Banhart in difficoltà su quello che in un tempo era il suo campo di battaglia preferito, ovvero la capacità di trovare armonie fatate con immensa semplicità.

Ondeggianti fra indecenza ed eccellenza, soprattutto perché difficili da inquadrare in un contesto organico, sono gli episodi più particolari del lavoro, come “Saved”, aperta da un maestoso organo e trascinata più o meno stancamente su sentieri al limite del Soul da cori femminei piuttosto ‘neri’, o “Shabop Shalom”, che viaggia in dense atmosfere da fumoso cabaret di metà secolo, con un Devendra in versione crooner e languidi interventi corali sullo sfondo. Infine, il Reggae lento e spiritato di “The Other Woman” funge da incipit per un finale di disco dal tono sorprendentemente dimesso, intimo ed autentico, in cui si rivedono sprazzi del Devendra che fu: anche qui mancano momenti veramente degni di nota, ma le ambientazioni fumose e rilassanti siano congegnate con classe e perizia, e sembrano quasi voler riconciliare il ‘vecchio’ Devendra con il ‘nuovo’.

Insomma, Banhart ha, come suo solito, carisma da vendere, ma il suo genio non sempre brilla a dovere; i tanti tocchi di classe (e lo charme di un personaggio -e una voce- del genere) permettono a “Smokey Rolls Down Thunder Canyon” di garantirsi una sufficienza ampia e, in fondo, meritata; in definitiva però, “Smokey...” è finora il parto meno riuscito di Devendra Banhart, e risulta consigliato solo a chi non avesse mai ascoltato il cantautore americano (fra le innumerevoli deviazioni stilistiche di questo album, ne troverà almeno una di suo gradimento che lo spinga ad approfondire...) o a chi desiderasse ardentemente un’ulteriore dilatazione delle idee espresse su “Cripple Crow” – agli amanti di lungo corso, invece, è raccomandabile un ascolto preventivo.
 

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