Nel 2011, a due anni dall’ultima fatica, ecco tornare sotto i riflettori della critica e del famigerato music biz anche Polly Jean Harvey, colei che insieme alle colleghe Björk e Tori Amos (anch’esse redivive nello stesso anno) marcò indelebilmente la musica degli anni ’90.
Un trademark di PJ Harvey è da sempre la capacità di trasformare la rabbia in musica, un’esplosione ed un’aggressività quasi punk condensate in un rock accurato e annientante. Ma gli anni passano per tutti, e non è raro che le esperienze che si accumulano portino ad essere più riflessivi, o quantomeno meno irruenti: è questo che accade in Let England Shake. Spade e forconi vengono deposti per cedere il passo a lame più sottili, e invece che urla di battaglia adesso troviamo sospiri languidi o maturi vocalizzi volti alla creazione di un vero e proprio concept album dedicato alla sua terra, l’Inghilterra. Più che altro, l’attenzione sembra maggiormente rivolta alla guerra, a volte ironicamente colorita di toni patriottici e combattivi, ma sempre condannata in tutto il suo orrore.
L’album si apre con l’omonima Let England Shake, che nei suoi brevi 3 minuti condensa subito alcune delle caratteristiche salienti dell’intero lavoro: il sound, l’atmosfera, la voce stessa di PJ sembrano appartenere ad un’epoca passata, provenire da foto scolorite dai bordi bruciacchiati, mentre una melodia vagamente ragtime saltella su xilofoni picchettati e chitarre scosse come campane lontane. The Last Living Rose è una serena, malinconica elegia dedicata al suo nebbioso paese, descritto con ironica irriverenza e reso protagonista della successiva The Glorious Land. In questa canzone viene per la prima volta apertamente affrontato il tema portante dell’opera, lasciando che una chitarra nervosa e incalzante e percussioni marziali facciano da sottofondo a trombe che squillano ridicolmente nei loro richiami militari, mentre i tamburelli si scuotono e rimandano alla mente il trillo metallico degli stivali dei soldati in marcia. A sovrastare il tutto, la voce querula di PJ Harvey affiancata a quella di John Parish si rivolge quasi in preghiera all’America e all’Inghilterra, due grandi potenze mondiali che vengono rimproverate per non aver fatto abbastanza contro la guerra, utile solo a produrre distruzione, sofferenza e morte. Proprio quest’ultima troneggia minacciosa e imponente in All and Everyone, una delle canzoni meglio strutturate dell’intero album, installata su trombe malinconiche e chitarre, con armoniche profonde che si librano tristi su percussioni dall’aria quasi latineggiante che scandiscono un tempo capace di correre e incalzare durante le strofe, per poi impantanarsi e cadere con pesantezza ad ogni ritornello, come se dovessero scandire una marcia funebre, che poi è quella che compiono i soldati che avanzano sotto il sole. Il ruolo della cantante qui è quello di un bardo del nuovo millennio, capace di recitare una storia dai toni epici ora con veemenza, ora dimessamente. È un bardo anche quello che canta in England, a tutti gli effetti un canto folcloristico tratteggiato da una sottile voce mesta che si accompagna a pochi semplici accordi campestri e a vocalizzi sinistri e selvatici.
Non esistono variazioni sul tema, ogni canzone è sempre e comunque collegata all’argomento centrale analizzato sotto ogni punto di vista e, soprattutto, con una varietà di stili e toni tale da non risultare per nulla noioso quanto piuttosto capace di stimolare curiosità e interesse. Troviamo così pezzi crepuscolari e oracolari come On Battleship Hill, ballate un po’ scanzonate come The Words that Maketh Murder e macabri scenari di desolazione e morte descritti con agghiacciante serenità in Hanging in the Wire. La vecchia Harvey fa capolino nella furente Bitter Branches e la conclusiva The Colour of the Earth dipinge immagini raccapriccianti su un breve stornello medievaleggiante cantato a doppia voce, lasciando una nota agrodolce sul palato.
La materia è vetusta, trattata e ritrattata allo sfinimento da decenni prima che quest’album vedesse la luce, e la stessa PJ Harvey non aggiunge nulla a quanto è già stato detto. Ciò che però non può far altro che saltare all’occhio è che, nonostante tutto, le liriche sono estremamente curate, ed è sorprendente la nuova veste che il 2011 ha tenuto in serbo per lei: la veste di una chansonnier matura, capace di muoversi con agile versatilità tra i diversi stili che riesce a dominare con maestria e di creare un prodotto estremamente compatto e originale, diverso dai precedenti ma non rinchiuso in sterili e snobistici intellettualismi, quanto piuttosto permeato sempre e comunque da quella vena scanzonata e impertinente che da sempre caratterizzano le sue canzoni.
Bentornata, Polly Jean.