- Takeshi - chitarra, basso
- Wata - voce, chitarra
- Atsuo - batteria
1. Riot Sugar
2. Leak -Truth,yesnoyesnoyes-
3. Galaxians
4. Jackson Head
5. Missing Pieces
6. Key
7. Window Shopping
8. Tu, la la
9. Aileron
10. Czechoslovakia
Heavy Rocks
La trilogia più pazza dell’anno (anche se in realtà è durata appena 3 mesi) si è finalmente chiusa. Dopo lo shock psichedelico dell’acclamato New Album, i Boris danno alle stampe gli ultimi due full-lenght da tempo annunciati e in cantiere, ponendo di fatto fine ad un trittico insano e geniale. Tre album basati su un continuo intersecarsi di frammenti, sul ritorno ciclico di reminiscenze in perenne trasformazione che, di fatto, vanno a costruire un invisibile filo conduttore tra le opere, ognuna delle quali riprende e riarrangia brani dell’altra.
Il nuovo Heavy Rocks altro non è se non l’elevazione strumentale e lo sviluppo compositivo più moderno dell’omonimo disco del 2002; se il primo era lento, scarnificato e psichedelico, il suo successore è più duro, più graffiante, più heavy. Un’evoluzione percepibile sin dalla copertina, il cui arancione originale viene qui trasformato in un viola denso e pesante. Il richiamo è tematico e ovviamente stilistico: a guidare le legioni strumentali dei nipponici è di nuovo lo stoner nella sua natura più radicale, qui evocata da un sound roccioso ma dagli effetti lisergici (Leak –Truth, Yesnoyesnoyes), pesante ma meno contaminata rispetto alle follie sperimentali di Smile (2008).
Quando il disco muove i suoi primi passi, si incomincia a percepire la sostanza di cui è brutalmente composto Heavy Rocks. E’ Riot Sugar, grande maledizione stoner/doom in pieno Boris old style: chitarroni iper-distorti, atmosfere da deserto mentale post-acidi, ritmi cadenzati, voci demoniache e sensuali. Come anche nelle ultime uscite, a colpire è innanzitutto la massiccia dose di melodia inserita endovena dai Boris nelle loro creazioni: pur snodandosi in territori musicali più duri e hard, anche Heavy Rocks si fonda su un gusto melodico molto accentuato, spesso portato addirittura fin nei suoi lidi più intimi e malinconici (la lunghissima Missing Piecese, di contro, la breve Key). I migliori episodi coincidono con i momenti in cui Boris approfondiscono questa radicale ricerca di distorsioni corrosive e melodie inaspettate lungo percorsi dal minutaggio più elevato: prima la già citata Missing Pieces (avvolgente, dall’atmosfera malinconica ma dura: la più straziante “ballata” stoner/doom della storia), poi l’altrettanto lunga Aileron, più tesa e inquieta ma dal taglio più solenne rispetto all’altro colosso.
A deludere leggermente sono solo le cover dei due brani di New Album, le quali perdono molto spessore nella loro versione stoner: il beat EBM di Jackson Head si trasforma in una marcia elettrica rocciosa e declamatoria, mentre Tu, la la (tra i capolavori del precedente disco) appare completamente svuotata del suo fattore onirico e atmosferico, rimanendo così orfana dei suoi migliori pattern strumentali. Nonostante abbiano ultimamente intrapreso un percorso di ricerca estremamente poliedrico e sperimentale, quando c’è da fare headbanging e da mandare a fanculo il resto del mondo, i Boris si dimostrano ancora una volta dei maestri: ne sono vivaci testimonianze lo stoner-punk di Window Shopping, la follia rumoristica di Czechoslovakia e l’hardcore maledettamente roccioso di Galaxians, peraltro pervaso da un afflato quasi misticheggiante (i vocalismi sommessi che ne accompagnano la strofa principale).
Il violento ritorno dei Boris allo stoner non va inteso come un semplice dietrofront ma piuttosto come rievocazione di un passato fondamentale che è parte integrante dei nuovi Boris. Accanto alla psichedelia di New Album e ai toni criptici di Attention Please, Heavy Rocks rappresenta il cuore più duro, sabbioso e distorto del combo nipponico, chiudendo di fatto un cerchio stilistico e tematico che in poco più di 5 mesi ha già creato scalpore. Un gruppo infinito.