-Cole Alexander - Chitarra, voce
-Jared Swilley - Basso, voce
-Ian Saint Pé - Chitarra, Voce
-Joe Bradley - Batteria, voce
01. Family Tree
02. Modern Art
03. Spidey's Curse
04. Mad Dog
05. Mr. Driver
06. Bicentennial Man
07. Go Out and Get It
08. Raw Meat
09. Bone Marrow
10. The Lie
11. Time
12. Dumpster Dive
13. New Direction
14. Noc-A-Homa
15. Don't Mess Up my Baby
16. You Keep on Running
Arabia Mountain
Dovendo tracciare un profilo minuzioso ed altamente preciso della musica garage odierno non è affatto facile intercettare gli eventuali fattori che possano accomunare una scena o andare a formare diversi modi di suonare. Dagli inizi degli anni duemila si è andata diffondendo una certa attitudine capace di fondere l' aggressività e la dirompenza del punk più underground con il perfezionismo e l' hype dell' indie-rock più imperioso. Hanno esordito di conseguenza band capaci di interpretare il garage in maniera del tutto differente: basti pensare, ad esempio, agli Hives, capaci di scalare le classifiche con i loro pezzi nevrotici ed energici, oppure a nomi come gli Hunx and his Punx o il simpatico Nobunny, figliocci di un modo di suonare che va dai Reatards e soci fino ai Gories. Per non parlare di derivati pop-rock o post-punk come le Vivian Girls, i Crystal Stilts, gli Smith Westerns o Wavves, che stanno letteralmente dominando l' America con il loro spirito punk. In mezzo a questi gruppi come i Black Lips fanno un po' la parte dei padri, convivendo con questo genere di grandi fortune ed altrettante sfortune. Continuamente citata o plagiata direttamente nelle proprie canzoni, la band americana di Atalanta, Georgia, dal 1999 in attività, è uno dei pochi ponti veramente stabili capaci di creare un collegamento autentico tra vecchio e nuovo. Saliti alla ribalta con Let It Bloom, perfetto connubio tra White Stripes di De Stijl e la sporcizia dei sixties, imbeccano con Good Bad Not Evil e 200 Million Thousand una via sperimentale, che fa dell' eccessiva secchezza del proprio sound un' arma inaspettata nella prima uscita, soprattutto per gli echi revival, mentre si tradisce con una pomposità alternative-rock nel secondo caso.
Reduci quindi da un passo falso, per il nuovo album decidono di non tentare di nuovo la fortuna, facendo gola semmai all' ascoltatore con la cattiveria adatta di cui necessita un disco di garage. Prendono il sax da Rob Lind per essere sicuri di non fallire. Lui gentilmente glielo presta, ma ad una condizione: di non andare a scavare troppo nel passato, inventandosi qualcosa che si possa definire anche loro. Ed ecco allora che i ritmi, dopo aver preso confidenza con Ramones, Rolling Stones, Fuzztones e qualche base tipica dei Byrds, tentano almeno di virare il tutto suonando con piglio tipico di chi si concede al southern rock. Attenzione quindi, perché mentre si pratica surf a tutta birra come ai vecchi tempi si va incontro a ritmi impastati, lenti e lavorati ai fianchi grazie a qualche trucco lo-fi. Per il resto, ambientatevi pure tra i soleggiati canyon cinematografici, tirate qualche grido isterico alla Psycho ma, mi raccomando, non affrettatevi, perché di fronte abbiamo ben sedici tracce che sembrano avere tutta l' intenzione di evolversi ognuna a loro modo, senza cadere in impeti fulminei come accaduto negli altri dischi.
A partire da Go Out and Get It, il singolo che ha anticipato Arabia Mountain, dove li possiamo notare in spiaggia nudi e crudi, con fisici da rocker in pensione, inscenare qualcosa di sbilenco ma puramente sensato con quel cantato da Beach Boys. I conti sembrano tornare. Ma andando con ordine, si possono ben captare pezzi, come abbiamo detto, più classici, ed altri più nuovi, non solo per gli elementi in gioco. Family Tree, Modern Art e Mad Dog in apertura puntano su un sinistro e destro irreversibile, con quella miscela di psichedelia, beat e punk la cui ricetta sembra essere ormai dominio di pochi( anche se in Modern Art Swilley scimmiotta un po' quella di Pelle Almqvist). Illuminanti per semplicità Mr. Driver e Bicentennial Man, quest' ultima appartenente di diritto ai Mando Diao di Bring 'Em In anche se stilisticamente meno scandinava nelle chitarre. Time e Raw Meat sono liofilizzati di Jay Reatard, mentre Bone Marrow sembra cerchi di ripetere le gesta di The Drop I Hold( dal precedente album), trasformandosi per fortuna in un pop-rock dal sing along assicurato. Il sax ricompare in Noc-A-Homa, una sala da ballo rock n' roll che chiude i battenti solamente di fronte alla sfumata You Keep On Running finale, vibrante e lenta nelle tastiere.
Con Arabia Mountain i Black Lips si riportano sui binari che gli competono, evitando le critiche di 200 Million Thousand appoggiandosi su spalle resistenti quali quelle dei pilastri sixties citati. Suonano con fare da padroni un garage fluido, cristallino e, al termine dei quaranta minuti dell' album, pure tonificante. Tracce che altresì andranno benissimo in sede live, perché composte da pochi strumenti e capaci di una certa attrazione. Di certo dei Black Lips così completi, sia nella musica che nei testi, non si sentivano fin dai tempi di Let It Bloom.