Tamer Animals
Il nuovo lavoro della band dell’Oklahoma ha il duro compito di dover confermare e, perché no, anche rilanciare le melliflue armonie del predecessore. Per iniziare riponiamo in un cassetto tutta la musica che abbiamo fin’ora ascoltato e lasciamoci trasportare senza troppi indugi dalle melodie degli Other Lives. Suoni che si perdono e si ritrovano con continuità logica, magistrali arrangiamenti orchestrali in un crescendo emotivo degno di pochi eguali nel panorama musicale attuale ed una produzione cristallina sono i punti cardini di Tamer Animals.
Se ai ritmi spesso incalzanti affianchiamo richiami ad arrangiamenti di “Morriconiana” memoria (Dust Bowl III, Old Statues), i maestosi corni e le veloci incursioni di violoncello e chitarra (Heading East), invece, ricordano le armonie moderne di Philip Glass e rendono meno impervia la strada per raggiungere e comprendere quello che è il vero obiettivo degli Other Lives, un obiettivo che nel corso degli anni non è mai apparso in discussione neanche per la band stessa. Ovviamente il riferimento è a quello che, nelle sue fondamenta, la musica degli Other Lives vuole rappresentare, e cioè una sorta di musica “paesaggistica” volta a trasportare l’ascoltatore in un mondo parallelo ben preciso -basti pensare ai richiami orientaleggianti di Desert e Landform- in cui le complicazioni quotidiane vengono meno e ci si può lasciare abbandonare tra le braccia dei passaggi avvolgenti e rincuoranti di Tamer Animals. Ridurre il complesso di sfumature ad una questione meramente rappresentativa sarebbe logicamente errato. Si tratta pur sempre di un lavoro inequivocabilmente intimo, dal sospiro epico e terribilmente emozionante, ma che riesce sempre a trasmettere un suono caloroso, sicuro, privo di lacune. Rassicurante.
Risulta ostico, mai come in questo caso, parlare di tematiche strettamente tecniche, come la produzione, non più affidata totalmente a Joey Waronker, che aveva affiancato la band dopo la lunga militanza alla corte di Beck come batterista. Waronker difatti, rientra in gioco solo in fase di ultimazione del disco, una scelta dettata dalla volontà di Tabish e compagni di affidarsi alle natie e familiari ambientazioni di Stillwater, deliziosa cittadina nel cuore dell’Oklahoma. 14 mesi in cui gli Other Lives scolpiscono ogni singolo mattone con minuziosa cura, accettando la rischiosa scelta di affidarsi unicamente ai propri “suoni”, alla propria saggezza musicale, con la consapevolezza di aver comunque estirpato da loro stessi il miglior suono possibile, e, come da loro stessi ammesso, senza essersi abbandonati in infruttuose “lazy Sunday sessions”. Non è la ricerca del “singolo” l’assillo degli Other Lives, la loro musica deve interamente scorrere dentro ed attorno a noi senza restrizioni più o meno dettate dalla logica commerciale. Ma in una qualità generale che, allo stato attuale delle pubblicazioni musicali del 2011, varrebbe senza ombra di dubbio la palma di disco (folk) dell’anno, spicca su tutti il magnetico pianoforte della title-track Tamer Animals, non da meno è la toccante For 12, corredata di profumi del vecchio West, e la già citata Dust Bowl III, un brano che si racchiude in sé per tre quarti della sua durata, per poi esplodere con tutto il suo vigore negli attimi finali.
Si può certamente discutere delle capacità canore del frontman Jesse Tabish o della difficile collocazione musicale della band americana, ma per il momento i nostri dubbi possono ancora aspettare: Tamer Animals è già ripartito nel nostro lettore.