- Patrick Wolf - Voce, Pianoforte, Violino,
Guests:
- Alec Empire - Co-Produzione, Elettronica
- Matthew Herbert - Elettronica
- Tilda Swinton - Voce
- Eliza Carthy - Voce
1. Kriegsspiel
2. Hard Times
3. Oblivion
4. The Bachelor
5. Damaris
6. Thickets
7. Count Of Casualty
8. Who Will?
9. Vulture
10. Blackdown
11. The Sun Is Often Out
12. Theseus
13. Battle
14. The Messenger
The Bachelor
Un cuore instabile, gemente, malinconico, che ha iniziato lentamente a battere sette anni fa nel nome di un progetto destinato a rimescolare le carte e le gerarchie del cantautorato moderno. Una sorpresa che si è affermata progressivamente ma che, anno dopo anno, ha finito per squarciare qualsiasi equilibrio emotivo oltre che ogni forma di aspettativa. Quel cuore è situato nel corpo del ventiseienne inglese Patrick Wolf, giovane songwriter e polistrumentista dal viso buffo e spento, perso nel suo indecifrabile cosmo di fiammate idealistiche e liriche introspezioni. Un viso che d'altra parte non lascia per nulla intendere ciò che realmente si cela dietro le alquanto bizzarre copertine dei suoi (splendidi) dischi; un incantesimo che affonda le sue radici in un cantautorato leggero ma turbato, in uno stile contaminato ed elegante, oltre che in una poetica sentimentale-esistenziale dai toni spiccatamente romantici.
La carriera del giovane Wolf parla da sola: un pressochè invisibile Ep d'esordio nel 2002 seguito dal primo e sorprendente full-lenght Lycanthropy (2003) e dal singolo Libertine estratto dal successivo album Wind In The Wires (2005); passano due anni ed esce The Magic Position (2007), ovvero il disco che lo consacrerà definitivamente a livello internazionale tra i migliori cantautori contemporanei. Strameritato, quello del giovane londinese è stato un successo decretato all'unisono ma che non ha mai messo in dubbio nè le sue qualità compositive nè la serietà di un ragazzo che, a dispetto dell'età, ha mostrato quell'umiltà e quel senso di riservatezza artistica tipico dei grandi musicisti.
Testa bassa, piedi per terra, mani agli strumenti, cuore al sentimento: seguendo tali premesse, che hanno in egual modo accompagnato tutte le precedenti pubblicazioni di Wolf, The Bachelor si presenta in tutto il suo splendore, nell'inequivocabile bellezza cristallina di un'opera completa, affascinante e ricercata. Uscito il primo di Giugno per la Bloody Chamber Music, l'ultima creazione del genietto londinese emblemizza il suo linguaggio poetico e musicale in quella che sembra l'evoluzione perfetta di uno stile che ancora necessitava di una espressione così completa, ricca e sfaccettata.
Se infatti i precedenti dischi si muovevano lungo orizzonti ancora troppo confusionari (Lycanthropy), struggenti ma meno ricercati (Wind In The Wires) o più sfacciatamente easy-listening (The Magic Position), The Bachelor raccoglie tutto ciò che Wolf ha seminato nel corso della sua carriera, donandoci di conseguenza un affresco estremamente emozionante e policromatico della sua arte musicale.
A fungere da ossatura dell'album vi è infatti una continua contaminazione stilistica e tematica che coinvolge tanto la folktronica quanto l'indie pop, passando per brevi cornici industrial, un cantautorato riflessivo e melodico, evoluzioni alt-pop e soundscapes elettronici che, brano dopo brano, si susseguono in uno sfavillante immaginario musicale. Supportato da un ospite d'eccezione quale Alec Empire - storico frontman degli altrettanto storici Atari Teenage Riot - oltre che dal genio elettronico Matthew Herbert, dall'attrice Tilda Swinton e dalla singer Eliza Carthy, il songwriter londinese ha costruito il suo ultimo lavoro con classe e raffinatezza sopraffina, curando ogni minimo dettaglio tanto negli arrangiamenti (perfetto connubio di folk, indietronica e classical) quanto nelle sempre coinvolgenti linee melodiche di ogni singolo brano.
Dal malinconico lirismo folk del capolavoro Thickets fino alle contaminazioni elettroniche di Count Of Casuality, in cui forti colorismi notwistiani convivono coi beat duri e sincopati tipici di certa elettronica europea (Abstrackt Keal Agram su tutti), The Bachelor si mostra in tutta la sua ricchezza espressiva attraverso una sterminata successione di gioielli di rara qualità artistica. Il più movimentato groove indie di Hard Times (fine critica ai misfatti della società contemporanea), la struggente malinconia di The Sun Is Often Out (soprattutto nella grazia con cui la voce di Wolf si posa soavemente sul morbido sottofondo di archi), il frizzante connubio di ritmiche electro-pop e synth acidi di Vulture, o ancora Oblivion e i suoi raffinati giochi strumentali; tutte queste gemme, ognuna con la propria varietà e potenza espressiva, emblemizzano brillantemente lo stato di grazia creativo di Wolf, enucleando tutte le caratteristiche che hanno reso strabiliante il suo songwriting: raffinatezza del tocco strumentale, grande ispirazione melodica (Theseus), ricercatezza negli arrangiamenti e nelle rifiniture armoniche (la conclusiva The Messenger oltre che la straniante dissonanza della breve opener Kriespiel), assoluta eterogeneità espressiva.
Di episodi sotto tono non ve ne sono (le meno incisive Titletrack e Damaris non possono essere considerati veri e propri passi falsi), di cali emotivi e atmosferici nemmeno l'ombra: The Bachelor riesce a rimanere sospeso in tale illuminante elevazione senza mostrare alcuna lacuna, nè nei suoi andamenti più lirici (come quelli quasi-celtici di Blackdown) nè in quelli più meccanici ed elettronici (la violenta Battle, in cui predomina lo zampino del buon vecchio Empire), rafforzando di volta in volta un disegno musicale estremamente suggestivo ed emozionante. Fondendo l'impeto espressivo di Lycanthropy col decadente spleen di Wind In The Wires e le sgargianti fantasie alt-pop di The Magic Position, l'ultimo lavoro di Patrick Wolf ha dimostrato di essere il completamento ultimo nonchè l'espressione più compatta e vincente di un cantautore fuori dalle righe, di un genietto romantico catapultato nell'era post-moderna con tutto il suo incompreso armamentario sentimentale e quell'amor cortese deturpato che fuoriesce costantemente dalle sue composizioni a un ritmo quasi compulsivo.
Se c'è un musicista che ha saputo rielaborare gli stilemi del cantautorato moderno in maniera assolutamente personale, quello sarà Patrick Wolf; se c'è un artista che ha saputo sposare alla perfezione il pop nella sua variante indie-coloristica tanto quanto in quella alternativa, quello sarà Patrick Wolf; se c'è un compositore in grado di operare una così convincente una simbiosi tra folk, eco classiche e scorribande elettroniche senza dover necessariamente ricorrere al plagio e ai piani d'emergenza, quello sarà Patrick Wolf.
Ma in fondo basta guardarlo un attimo in faccia, scorgere il suo sguardo indecifrabile e le sue enigmatiche espressioni, simbolo tanto di un'interiorità turbata quanto di un'instancabile pulsione creativa, per capire che il buffo magrolino che si ha di fronte non è un musicista qualunque, ma un prodotto assai raro che la scena alternativa contemporanea farebbe bene a tenersi molto ma molto stretto.