- Mikael Åkerfeldt - voce, chitarra
- Fredrik Åkesson - chitarra
- Martin Mendez - basso
- Martin Axenrot - batteria
- Per Wiberg - tastiera
1. Coil (03:07)
2. Heir Apparent (08:51)
3. The Lotus Eater (08:48)
4. Burden (07:42)
5. Porcelain Heart (08:01)
6. Hessian Peel (11:26)
7. Hex Omega (06:59)
Watershed
All’interno del panorama Metal una nuova pubblicazione degli Opeth rappresenta sempre un evento, poiché tra gli otto capitoli composti tra il 1995 e il 2005 diversi possono essere reputati come capolavori del genere estremo che riunisce Death e Progressive. Nonostante il successo ottenuto con Ghost Reveries e con i diversi tour che hanno seguito la sua uscita, l’ultimo periodo in casa Opeth non si può certo definire come rilassato e spensierato: lontani sono i tempi di Still Life, in cui la rinnovata formazione si apprestava a vivere a pieno la sensazione di costituire una realtà emergente in una scena musicale sempre più dominata dalle majors.
La genesi di Watershed raccoglie quindi tutte le esperienze che hanno segnato la vita degli Opeth a partire proprio dal periodo di Still Life: il costante cambio di etichette discografiche, l’abbandono di Martin Lopez prima e di Peter Lindgren poi, l’arrivo dei nuovi Per Wiberg, Martin Axenrot e Fredrik Akesson, gli innumerevoli ed estenuanti tour sostenuti in tutto il mondo e la crescita notevole delle vendite discografiche per il gruppo svedese.
Nella mente di Mikael Akerfeldt la metafora dello spartiacque è stata sviluppata fino a trovare piena realizzazione nelle sette tracce che compongono questo nono episodio, il secondo sotto Roadrunner Records.
Accostarsi ad un’opera come Watershed non è facile, soprattutto dopo la pubblicazione di un Ghost Reveries non all’altezza dei precedenti capolavori; eppure, sebbene il tipico sound degli Opeth plasmato fino ad oggi sia rimasto immutato nella maggior parte delle sezioni di Watershed, si può affermare che Mikael Åkerfeldt è riuscito a ritrovare l’equilibrio di composizione degli anni d’oro.
Stupisce che solo una canzone superi i dieci minuti di lunghezza, differentemente dai vari Still Life, Blackwater Park, Deliverance e Ghost Reveries, come stupisce l’incipit di Coil, in cui compare per la prima volta nella storia degli Opeth una voce femminile a scandire parte del testo.
Coil costituisce infatti un’introduzione che vuole porsi come portatrice del cambiamento: atmosfera sognante ma distesa e rilassata, intrecci di stampo quasi medievale ed un approccio sicuramente diverso da tutta la passata produzione. Tale buon proposito non sarà seguito coerentemente nell’intero Watershed, perché capitoli come Heir Apparent e The Lotus Eater fanno sprofondare nuovamente l’ascoltatore nella nota dimensione a cavallo tra il Death del devastante Deliverance e il Progressive del delicato Damnation.
L’inserimento delle tastiere si colloca però in modo diametralmente opposto allo stile discutibile e per nulla convincente impiegato da Per Wiberg nella pubblicazione del 2005: rinforzati quindi dai tappeti di tastiere (organi e synth in primis), gli Opeth danno vita ad altre sei brani impeccabili nella struttura e nell’interpretazione, anche se decisamente prevedibili per i timbri esplorati. Equilibrati nei giochi di luci e ombre e nell’alternanza tra tempi vorticosi e calme distensioni, Heir Apparent e The Lotus Eater raffigurano comunque due prove di grande abilità, ben superiori rispetto alla totalità delle pubblicazioni del genere.
Tocca quindi alla deliziosa Burden riportare Watershed in un alone di meditazione, perché in uno sviluppo che ricorda da vicino A Fair Judgement gli Opeth garantiscono una direzione appassionante, prima di tornare alle sonorità più misteriose di Porcelain Heart, ennesimo tributo a Deliverance. La voce di Mikael è il punto di forza che emerge tuonante nei fraseggi più estremi e che si mostra melodica e raffinata negli intervalli più eleganti, in cui emerge tutta la decadenza dello stile Opeth. Un’altra perla che fa rammentare le atmosfere eleganti di Blackwater Park e di Damnation è Hessian Peel, la canzone più lunga ed articolata, che trasuda malinconia dalle parole scandite e dal tessuto sonoro proposto, in un crescendo di emozioni.
Il finale di Watershed sorprende quasi quanto l’inizio, con una breve Hex Omega densa di contenuti ed originale rispetto alla classica produzione rivisitata nell’album; ciò che colpisce positivamente è comunque la coesione interna e l’omogeneità che gli Opeth sono riusciti a trasmettere a Watershed, opera che potrà davvero fungere da spartiacque anche nella carriera discografica degli svedesi.
In definitiva Watershed è un viaggio da scoprire in tutte le sue parti ascolto dopo ascolto, un viaggio che non deluderà chi si dimostrava scettico sul nuovo corso degli Opeth in Roadrunner, un viaggio che non è accompagnato dai testi del booklet, troppo intimi secondo Mikael per essere pubblicati.
Sebbene lo stile presentato in Watershed sia il tipico sound Opeth, costruito con cura e professionalità fin dall’uscita di My Arms, Your Hearse, la band mostra un profilo superiore rispetto a quello di tutte le altre realtà della scena Metal attuale. Considerando poi tutte le vicissitudini che hanno fatto da cornice alla composizione di Watershed, si deve osservare come la sensibilità di Mikael Åkerfeldt superi ancora i limiti imposti dalle leggi del mercato musicale, la cui logica non è mai stata gradita da una band (o da un cantautore) ancora in cerca di conferme.