- Mikael Åkerfeldt - voce, chitarra
- Peter Lindgren - chitarra
- Martin Mendez - basso
- Martin Lopez - batteria, percussioni
- Per Wiberg - tastiera, cori
1. Ghost of Perdition (10:29)
2. The Baying of the Hounds (10:41)
3. Beneath the Mire (07:57)
4. Atonement (06:28)
5. Reverie / Harlequin Forest (11:39)
6. Hours of Wealth (05:20)
7. The Grand Conjuration (10:21)
8. Isolation Years (03:51)
Ghost Reveries
Da anni gli Opeth viaggiano ai massimi livelli all'interno del panorama Metal estremo internazionale, poiché, dal 1994 ad oggi hanno abituato gli innumerevoli fans a pubblicazioni sorprendenti, ricche di potenza mista a melodia, variando notevolmente il proprio registro compositivo.
Il celebre artista Travis Smith non delude per primo le aspettative, proponendo un artwork stupendo per Ghost Reveries, una copertina che raffigura l'alone cupo e buio dell'album, apparentemente ben lontano però dalle atmosfere di Damnation. Ciò che manca nel disco è la continuità con i precedenti lavori, in quanto gli Opeth presentano sì un prodotto dotato di ottima registrazione e ricercato nei suoni, ma che non convince particolarmente per le troppe soluzioni azzardate.
Con Ghost Reveries la band scardina sicuramente le critiche di coloro che si prefiguravano un full-lenght ripetitivo e privo di innovazione: difatti Mikael e compagni hanno optato per un ulteriore mutamento di timbri, cercando di mostrarsi aperti musicalmente ad altri generi e di stupire gli ascoltatori con scelte inedite.
Purtroppo tale cambiamento non ha giovato alla resa del cd e gli Opeth avrebbero perseverato su ottimi risultati se avessero conservato profondamente le influenze dei lavori da Still Life in poi; troppi gli elementi discostanti, come tamburi e intermezzi tipicamente Alternative alla Tool, voci filtrate vicine ai toni dell'amico Steven Wilson (Porcupine Tree) e collegamenti tra riff mal sviluppati poiché non omogenei tra loro. Anche i grandi musicisti a volte sbagliano a realizzare una pubblicazione pur avendo speso parecchio tempo a costruirla: non è il caso del gruppo svedese, che non propone un album terribile, bensì straripante di idee complesse, che rischiano di non amalgamarsi con efficacia. Si deve rammentare che l'arricchimento della line-up, con l'inserimento stabile alle tastiere di Per Wiberg, il session-musician nel dvd Lamentations, ha influito pesantemente sul sound, ora colmo di effetti di sintetizzatore e di parti sinfoniche di sottofondo, a tratti azzeccati, a tratti ambigui e non pienamente apprezzabili. Al solito, gli altri membri del gruppo interpretano perfettamente il contesto dell'opera: un Lopez e un Mendez sfrenati e virtuosi rispettivamente alla batteria e al basso, un Lindgren intricato e vorticoso nei riff di chitarra e un Åkerfeldt come sempre sorprendente nell'esecuzione vocale e nel song-writing, capace di variare la propria estensione tonale dal penetrante growl al malinconico clean.
Ghost of Perdition, la traccia d'apertura del disco, della durata di oltre dieci minuti, si estende convincendo a pieno l'ascoltatore, in quanto si possono ricercare numerosi aspetti di continuità con Still Life o Blackwater Park: solo pochi passaggi più spinti verso ritmi Alternative e alcune scelte leggermente scontate non permettono alla monumentale canzone di raggiungere i livelli elevati dei predecessori. Tuttavia Ghost of Perdition appare molto gradevole negli intrecci si chitarra o nei diversi timbri adottati da Mikael per far fronte alle sezioni più aggressive, che si aprono a distensioni melodiche di elevata fattura.
Altrettanto lunga e discreta nell’approccio è la seconda The Baying of the Hounds, in cui il buon ritmo è deturpato da trovate settantiane, sì stupende nella musica Progressive/Psichedelica o Hard Rock del periodo, ma totalmente dissonanti nell'ambito Opeth: le sferzate di Hammond sono a dir poco esagerate e rovinano l'atmosfera appassionante che le chitarre cercano di costituire con il passare dei minuti. Tutte le parti del brano risultano eccellenti ma separate, non connesse l'una all'altra da quel filo conduttore che aveva reso celebri i prodotti discografici della band scandinava.
Il capitolo di Ghost Reveries da porre nel dimenticatoio è senz'ombra di dubbio Beneath the Mire, forse il pezzo meno coinvolgente e più improvvisato che il gruppo ha mai realizzato: un tema di tastiera orientaleggiante, chitarre spezzate e un growl possono essere dei buoni ingredienti per tessere composizioni alla Orphaned Land, ma gli Opeth abbandonano completamente il proprio stile, cercando di esplorare meandri sconosciuti; ogni tipo di sperimentazione ha il suo limite e Beneath the Mire non riesce a far emergere emozioni da nessuna delle sezioni che lo formano.
A dir poco penosi gli effetti elettronici che collegano alla seguente Atonement, traccia più riflessiva e sognante, ma scarica di quel sentimento che sgorgava da altre ballate di pregevole fattura targate Opeth, quali To Bid You Farewell o Harvest: più che ballata, questa canzone di media durata è un interludio che spezza l'andamento del disco, delimitando la fine della prima metà. Percussioni abbastanza orientali, come nel caso precedente, costituiscono un elemento strano per il sound degli Opeth e Atonement pare quasi una fusione di tre generi diversi, quali quelli interpretati dalla stessa band di Mikael, dai Tool e dagli ultimi Porcupine Tree.
La grande ripresa avviene con il mastodontico brano Reverie/Harlequin Forest, più votato a soluzioni passate e proprio per questo provvisto di una decadenza unica ed affascinante, che accomuna le parti strumentali dei vecchi Opeth con la nuova proposta dei connazionali Katatonia. Il growl risulta devastante e il pezzo non delude né tecnicamente né dal punto di vista del song-writing, grazie alla presenza di tristi stacchi acustici impreziositi dal fuggevole clean di Åkerfeldt.
Hours of Wealth ricalca precisamente il lavoro svolto da Damnation, sulle cui sonorità Mikael non voleva tornare, ma che qui ricompaiono in una traccia d’atmosfera, giustamente abbastanza vuota nella parte centrale, per conferire rilievo alla voce clean e alla chitarra bluesaggiante: il tessuto di base tipicamente Progressive Rock fa rammentare agli ascoltatori l’altra faccia della band, quella lontana da scelte estreme rintracciabili in alcune delle canzoni precedenti Hours of Wealth.
Al contrario The Grand Conjuration, dotata di alone buio come quello rappresentato sull’artwork, non stupisce e anzi si aggiunge a Beneath the Mire per concorrere a brano peggiore del lotto; si possono udire certi rintocchi di chitarra acustica che impreziosiscono l’architettura sonora, ma, durante i suoi dieci minuti di durata, essa si perde negli accompagnamenti sinfonici di tastiera o nell’oscurità che la circonda: non sicuramente diretta e spontanea come la maggior parte dei prodotti Opeth.
La conclusione di Ghost Reveries è affidata a una ballata lenta e breve, Isolation Years, una perla in stile Damnation incastonata su uno sfondo inatteso e per questo bellissima nell’interpretazione e nel patos che esprime.
Åkerfeldt parlava di qualcosa di differente rispetto agli album precedenti e Ghost Reveries ne è la conferma; tante le rivisitazioni Progressive Rock di Damnation, pur prevalendo una direzione sonora Metal, all’insegna di una riflessiva aggressività. Ghost Reveries potrebbe non essere compreso da molti come nel caso dello stesso Damnation, oppure potrebbe essere considerato la mossa vincente della discografia del quintetto: tuttavia, sebbene gli Opeth abbiano cercato di distinguersi ancora una volta senza risultare banali, le idee che scaturscono dall’opera sono troppe ed essa di pone nettamente al di sotto di tutti i predecessori.