- Tyondai Braxton - chitarra, tastiera, voce
- Dave Konopka - chitarra, basso
- Ian Williams - chitarra, tastiera
- John Stanier - batteria
1. Race: In (04:50)
2. Atlas (07:07)
3. Ddiamondd (02:33)
4. Tonto (07:43)
5. Leyendecker (02:48)
6. Rainbow (08:11)
7. Bad Trails (05:18)
8. Prismism (00:52)
9. Snare Hangar (01:58)
10. Tij (07:03)
11. Race: Out (03:29)
Mirrored
I Battles sono il supergruppo il cui debutto su full-length era tra i più attesi da parte dei critici di mezzo mondo.
L'eclettico quartetto consiste in John Stanier (alla batteria, ex membro degli Helmet e colonna ritmica dei Tomahawk), David Konopka (a chitarra e basso, dalla semisconosciuta band math-rock Lynx), Ian Williams (a chitarra e tastiere, leggendario membro di Don Caballero e Storm & Stress) e Tyondai Braxton (a chitarra e tastiere, nonché alle rare voci, figlio del jazzista d'avanguardia Anthony Braxton).
Con il bizzarro jazz-rock di Race: In si apre il loro primo disco Mirrored (preceduto in realtà da due EP che, tra il 2004 in cui sono usciti e il 2006 in cui sono stati raccolti in un'unica compilation, avevano causato un piccolo terremoto nel mondo dei post-rockers). Il successivo Atlas, primo singolo estratto, riesce ad unire un riffing che parte direttamente dal southern-rock ad una struttura di prog spigoloso, e immergere il tutto in una cascata di "demenzialità" infantili come nella Björk più euforica; ma la progressione armonica costruisce una suite che man mano che prosegue assomiglia ai King Crimson più sperimentali.
La folle vorticosità di Ddiamondd, su furibondi patterns batteristici gonfiati da iniezioni sempre maggiori di chitarre distorte, è uno degli episodi più travolgenti, mentre al contrario la dissonante seduta psicanalitica di Tonto è uno degli esperimenti più raffinati: sezione ritmica bombastica che segue una suite allucinante, in cui il caos viene attratto, masticato e riorganizzato; da notare in particolar modo le chitarre, che si rincorrono in un labirinto di elementi il cui unico scopo è quello di comunicare la loro stessa stranezza.
Il mood è quello del post-rock, ma l'esecuzione spazia in realtà dalla forma-mentis del jazz a quella del rock "propulsivo" alla Don Caballero, di cui pare proprio che i Battles siano il naturale proseguimento, seguendo un modo di intendere il rock sempre più bizzarro ma anche sempre più analitico; nello specifico, il drumming di Stanier costituisce l'ossatura dei pezzi dei Battles con la stessa centralità che riusciva ad imporre Damon Che Fitzgerald, ma nei Battles questo elemento funge da piedistallo per le sperimentazioni con la tecnologia (spesso sono impercettibili, ma l'album fiocca di filtri, distorsioni e digitalizzazioni) e con rapporti ritmico-armonico tipici della "warp generation" (difatti non è un caso che sia proprio la Warp la label a produrre il lavoro); e quando i virtuosismi batteristici raggiungono l'apice, si mettono da parte in pezzi come Bad Trails, che disegnano una versione minimale, calma e atmosferica dei The Pop Group.
Evitando con gran maestria la possibile dispersività della proposta sonora, brevi pezzi indie-prog come l'eccellente Leyendecker (o la più bizzarra e tecnologica Snare Hanger) si alternano a suite estremamente suggestive come Rainbow (8 minuti, uno dei massimi vertici del lavoro), che combina il jazz ad una voglia di decostruzione delle "atmosfere" (alla Brian Eno).
Ancora i fantasmi dei The Pop Group, decostruiti e acquietati a dovere, sono le presenze che stanno dietro alle danze di Tij, dalla ritmica frenetica. In pezzi come questo appare chiara l'influenza di Braxton su Williams: lui (Williams), che nei suoi lavori sperimentali era diventato sempre più un teorico della suite come improvvisazione progressiva (con l'effetto di smarrire a metà traccia il punto di partenza), viene qui trattenuto a terra dal più metodico Braxton, con il risultato di avere costruzioni compatte, d'impatto, e sempre tenute assieme da piccoli dettagli (un riff, un ritmo) ricorrenti all'interno dello stesso pezzo, a dare un senso di completezza al tutto.
E su questo universo non domina un senso di terrore, violenza o psicodramma (come le cupe sperimentazioni della new-wave), ma solo una gran voglia di creatività e libertà (ne è simbolo la conclusiva Race: Out, che esplode in una travolgente ritmica prog dopo un preludio gotico). La guerra è verso i generi e gli schemi fissi, e il filone di riferimento è quello del math-rock americano.
Di fatto, senza esagerare, allontanandoci dal dettaglio ci troviamo davanti a qualcosa di storico. Così come all'inizio degli anni '90 band come Slint e Don Caballero hanno costruito una rivoluzione sperimentale e intellettuale che si contrapponeva alla rivoluzione grunge, ora band come Battles e TV on the Radio stanno costruendo una scena (tanto intellettuale quanto, però, giocosa) che si contrappone, con la cultura del prog e del jazz, al dilagare del "nuovo" indie e degli schemi ormai prevedibili di gran parte del "post-rock".