Tool + Mastodon
12/11/06 - Mazda Palace - Torino
Il lungo tour di supporto a 10.000 Days, ultimo disco dei Tool, ha previsto anche una data torinese per domenica 12 novembre, la prima delle quattro date italiane invernali. Una security esageratamente numerosa ci accoglie all’interno del MazdaPalace (location per l’occasione ridotta alla metà della sua effettiva capienza) anche se inizialmente lo show avrebbe dovuto svolgersi nel nuovissimo PalaIsozaki.




Qualche minuto dopo le ore 19 si aprono i cancelli e tutti i presenti vengono informati tramite avvisi sparsi dovunque che per volontà della band è vietato l’uso di macchine fotografiche e di registratori audio e video (“per una migliore riuscita dello spettacolo”).
Il palazzetto fa in tempo a riempirsi quando alle 20.10 salgono sul palco i Mastodon a cui spetta il compito di aprire tutte le date del Winter Tour di Maynard e compagni. Reduci dal successo dell’ultima fatica Blood Mountain, il quartetto presenta uno show diviso in due parti: la prima comprende alcune canzoni tratte dal nuovo album, mentre la seconda è formata prevalentemente dai vecchi brani. This Mortal Soil apre la serata, catturando l’attenzione di tutti i presenti stupiti dalla carica e dalla grinta che la band dimostra on stage. Troy Sanders e Brent Hinds (rispettivamente il bassista e il chitarrista solista) si alternano in modo ottimo le parti vocali, il batterista Brann Dailor massacra i suoi tamburi e piatti mentre alla chitarra ritmica Bill Kelliher esegue perfettamente i suoi riff. La scenografia è inesistente se non fosse per la copertina di Blood Mountain riprodotta su un gigantesco telo appeso dietro al palco. Con The Wolf Is Loose il pubblico inizia a scaldarsi e a muoversi, dimostrando di apprezzare il metal proposto dai Mastodon. I suoni non sono proprio i migliori perché ci sono troppi bassi. Altri brani come Crystal Skull e Sleeping Giant eseguiti alla perfezione, Capillarian Crest, il singolo Colony Of Birchmen e il gruppo non dà segni di cedimento. Dispiace per il poco dialogo con il pubblico (limitato a qualche “grazie” qua e la da parte di Brent) ma la loro musica sostituisce in modo degno questa mancanza. Seguono un paio di altre canzoni ed è il momento di lasciare il palco, affidando a “Hearts Alive” la conclusione del set. I 50 minuti proposti dalla band sono esaurienti; risulterebbe di troppo anche solo un’altra canzone, sia perché la voglia di vedere gli headliner inizia a farsi sentire, sia perché il genere proposto dai Mastodon può risultare ripetitivo, soprattutto in locations dove i suoni non sono proprio perfetti come in questo caso.

Dopo aver lasciato il palco la strumentazione dei Mastodon viene smontata in fretta per permettere di preparare la scenografia dei Tool. Una decina di tecnici allestiscono lo stage con una cura quasi maniacale, stendendo sopra al palco un lungo tappeto bianco e lucido, facendo attenzione a non sporcarlo. Senza dubbio lo strumento più curioso da ammirare durante l’attesa è la batteria di Danny Carey: doppia cassa, piatti di ogni tipo, pad elettronici (che riproducono il suono delle percussioni usate in studio) gong, sintetizzatore e due timpani.
Alle 21.30, dopo venti minuti dalle ultime note dei Mastodon, i Tool sono già pronti a iniziare. Accolti dagli applausi dell’intero MazdaPalace entrano Carey, Justin Chancellor al basso e Adam Jones alla chitarra, attaccando subito con Stinkfist. Maynard si presenta con una maschera a gas a cui è attaccato il microfono che userà per tutto il concerto, mentre sui quattro schermi piazzati dietro a ogni componente vengono proiettati dei video in pieno stile Tool. Stinkfist è una bomba, dal vivo rende moltissimo e agita tutti i presenti; intanto si nota che l’acustica è migliorata (anche perché ora c’è meno confusione avendo una sola chitarra, a differenza del gruppo spalla che ne aveva due) ma la voce non si sente bene. Prima ancora di rendersene conto la canzone è finita ma l’eccentrico singer ha un gioiellino da proporci… «Who are you to wave your finger, you must have been outta your head» sono le prime parole di The Pot tratta dall’ultimo album e cantata da tutti. «You must have been high»: parte la batteria ed è il delirio, il giro di basso che già aveva stupito sul disco ora è ancora più coinvolgente, la chitarra è un muro di suono perfetto. La gioia dei fans si fa sentire e prima della terza canzone Maynard saluta con "Good evening Torino". Ora tocca a un altro vecchio brano Forty Six & Two forse il più conosciuto fra quelli del vecchio repertorio, e poi si passa a Jambi. Il chitarrista Adam Jones si serve di un microfono speciale per “cantare” l’assolo a metà canzone, dimostrando così che al gruppo le idee non mancano di certo e la parola “ripetitività” non fa parte del loro vocabolario.
Il basso esegue Schism (con l’aggiunta di un leggero effetto che la rende un po’ diversa dalla versione in studio) ma non sembra che ci sia tanta grinta da parte del gruppo, evidentemente stufo di suonarla a ogni concerto. Comunque nessun errore, anzi viene eseguita perfettamente e addirittura allungata in alcuni punti, giusto per modificare un po’ la routine.
Il quarto d’ora successivo è occupato da due canzoni: Lost Keys e Rosetta Stoned, capolavori suonati in modo magnifico on stage. Maynard collega il microfono ad un megafono per cantare il lunghissimo testo di cui non si riescono neanche a capire le parole (ma la cosa non risulta un problema, visto che anche sul cd è difficile distinguerle). Le illuminazioni sono bellissime: sopra le teste degli spettatori due fasci di luce verde si intrecciano creando un effetto splendido e dietro al palco un’enorme riproduzione della copertina di 10.000 Days sembra cambiare colore grazie alle luci colorate che si alternano al ritmo delle canzoni.

È il momento di calmarsi un attimo e ci pensa un medley di Merkaba, canzone quasi sconosciuta eseguita solo dal vivo, in cui Danny Carey si scatena in un eccellente assolo di batteria dimostrando la sua grande tecnica a chi ancora non ne era convinto. A questo assolo viene collegata Swamp Song, l’unico estratto dal primo album Undertow.
Finalmente arriva Lateralus la seconda e ultima traccia che i Tool suonano dall’omonimo album ormai considerato pietra miliare della musica rock. Come Schism, il brano va via veloce e senza annotazioni particolari ma è sorprendente vederlo eseguito dal vivo; colpisce Justin verso la fine della canzone che gioca con la manovella del volume del suo basso e Carey che non sbaglia un colpo tenendo precisissimo il tempo.
Si sta avvicinando la fine dello show e finalmente tocca a Vicarious. Anche questa stupisce per diversi particolari, per esempio ci si accorge che l’assolo presente nel brano è merito del basso effettato e non della chitarra; in pochi ci avrebbero scommesso. La tecnica perfetta dei Tool è un dato di fatto e non si può fare a meno di ammirare il batterista e il bassista per gran parte dello spettacolo.
Maynard torna a parlare per la seconda volta dicendo “Thank you very much for coming down. See you next summer”. Che ci sia una prossima apparizione ad un festival estivo? Non si sa e il pubblico rimane nel dubbio (ma anche nella speranza) finché non inizia Ænema ovvero l’ultima canzone della serata.
Da notare che la scaletta prevede quasi tutti pezzi veloci quindi per il pubblico non c’è un attimo di tregua. È un peccato non poter vedere brani come The Grudge, Right In Two e di non poter ascoltare le atmosfere oniriche delle due Wings.
Alle 23.10, dopo più di un’ora e mezza i quattro componenti lasciano il palco inchinandosi e apprezzando il calore che i fans dimostrano e continuano a dimostrare. I più fortunati tornano a casa con bacchette di Danny e pelli di tamburi. I meno fortunati hanno “semplicemente” assistito al concerto di una delle migliori metal band attualmente in circolazione.

Paolo “Freeman” Brondolo

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