The Unholy Alliance
22/10/06 - Mazda Palace - Milano
Secondo capitolo per l'Unholy Alliance in terra italica che questa volta si presenta come un vero e proprio mini festival. Spazio quindi a grandi nomi della scena Death-Thrash europea ed americana come In Flames, Children Of Bodom e gli inossidabili Slayer per un bill più rigorosamente metal rispetto al suo predecessore del 2004.




A distanza di due anni dal primo Unholy Alliance, ecco che fa ritorno in Italia il mini festival itinerante capace di raccogliere nello stesso bill alcune delle band più importanti della scena metal di oggi, di ieri e probabilmente di domani: oltre agli straordinari headliner Slayer, ormai giunti al ventiquattresimo anno di attività, si susseguono sul palco i sempre amatissimi In Flames, i finnici Children Of Bodom, i potenti Lamb Of God e i core-thrasher canadesi Thine Eyes Bleed. Quindi una scaletta più prettamente metal, al contrario della prima edizione che vedeva al fianco della band di Araya e soci gli Slipknot, Mastodon e Hatebreed, ma che ha anche portato poco pubblico in più.

Luogo prescelto è ancora una volta il Mazda Palace (ex-Palavobis), che però anche questa volta ha dato l'ennesima prova di non essere assolutamente l'ideale per un qualsivoglia concerto metal. Anche se l'acustica è migliorata sensibilmente negli ultimi anni, pur mantenendo delle lacune profonde se ci si sposta da davanti il palco, tutto il resto rimane di un livello spesso quasi scarso: bagni poco agevoli, spazio mal distribuito (ma d'altronde è un palazzetto nato per eventi sportivi) e poco ricambio d'aria che in poco tempo ha trasformato la "pista" in una specie di immensa sauna. Una situazione quasi insostenibile a cui si aggiungono svariati problemi tecnici che hanno rovinato l'esibizioni di un paio di gruppi e il fatto che non si potesse uscire dai cancelli del palazzetto per la strana e a dir la verità poco credibile mancanza di timbri, di fatto obbligando le persone già entrate a doversi rifocillare ai bar interni con prezzi altissimi e qualità pessima.

A causa del traffico milanese e della sempre simpatica norma emanata già da un paio d'anni dal comune del capoluogo lombardo che ha fatto anticipare l'inizio degli show alle 5 di pomeriggio per poter finire entro le 23.30, non possiamo riportarvi lo show del gruppo di apertura della giornata, i canadesi Thine Eyes Bleed. Ci scusiamo per l'incoveniente, ma sono le problematiche del venire da fuori Milano.

Arriviamo, quindi, giusto in tempo per assistere all'esibizione di uno dei quattro gruppi attesi: direttamente dalla Virginia, i Lamb Of God, freschi del buon ultimo lavoro Sacrament, ci sbattono in faccia il loro metal-core sempre più vicino al thrash southern in stile Pantera. Una band in forma e molto carica, con un D. Randall Blythe perfetto al microfono e sempre preso nella sua parte di anoressico e coinvolgente singer. Suoni a dir poco spaventosi, carichi di bassi e allo stesso tempo taglienti. Ottima la scenografia, semplice grazie al muro di amplificatori disposto sul palco, ma anche leggermente elaborata con i cambi di teli raffiguaranti di volta in volta gli album da cui le canzoni erano tratte. Tanta energia ed attitudine, con alcuni dei pezzi più famosi del combo statunitense tra cui la bellissima Ruin e altre ottime song come Walk With Me In Hell o Now You've Got Something To Die For e la famosa Laid To Rest, tutti pezzi che scatenano abbastanza il pubblico, soprattutto nelle prime file. Sembra filare tutto liscio, se non fosse che di colpo sparisce la corrente sul palco, lasciando muti gli strumenti dei nostri. Passano troppi minuti prima che i cinque musicisti possano riprendere ed di fronte alla mancanza di tempo e al susseguirsi di problemi tecnici, il loro show si conclude subito con il primo singolo estratto da Sacrament, quella Redneck molto potente dal vivo e ricca di richiami ai Pantera più southern. In conclusione I Lamb Of God pagano lo scotto di una platea concentrata su ben altri gruppi e magari non molto propensa ad un certo tipo di sonorità. Le scuse per le difficoltà tecniche però gli fanno guadagnare qualche applauso extra da tutti.

Archiviata la pratica dell' "agnello di dio", il pubblico fremente attende l'abbasarsi delle luci per poter finalmente assistere alla prova del terzo gruppo in scaletta: Alexi Laiho e i suoi Children Of Bodom sono una delle band "giovani" più amate dagli italiani e, ormai abitué dei palchi dello stivale, sanno di trovare un terreno amico su cui esibirsi. Introduzione quasi comica che riprende la sigla della Pallottola Spuntata con uno speaker che annuncia il loro arrivo e partenza al fulmicotone con Silent Night, Bodom Night che fa esplodere un boato tra il pubblico. Al contrario della band che li ha preceduti, i CoB presentano una scenografia ridotta all'osso, ma si muovono con più libertà spesso incrociandosi e duettando tra loro. La scaletta è ben suddivisa tra i cinque album della band (tenendo conto anche del poco tempo a disposizione) lasciando fuori soltanto Something Wild: in ordine sparso, da Downfall a Needleed 247 passando per Sixpounder e Angels Don't Kill per concludere poi con Hate Me!. Anche la band di Laiho però deve passare per il purgatorio dei problemi tecnici: anche questa volta corrente elettrica che salta nel bel mezzo dello show, facendo infuriare alquanto i fan. Una decina di minuti per riportare tutto alla normalità, ma lo spirito del concerto in parte cala. Perfino i suoni non sono molto dalla parte dei sei finnici: chitarre senza troppo mordente e a volte un pò confuse. La prova di Alexi è ottima invece, se non fosse per un atteggiamente un pò da rock-star (tale da non fargli presentare quasi nessuna canzone e continuare invece ad urlare una serie innumerabile di "fuck") che i detrattori sottolineeranno all'infinito, ma che in fondo fa parte del personaggio. Un'esibizione breve; sarebbe stato bello potersi gustare qualcosa di più anche per avere il tempo di lasciarsi coinvolgere appieno nella musica sempre in evoluzione dei Children Of Bodom, molto professionali sul palco, però forse un pochino distanti e concentrati sul loro show.

Cala lo stendardo dei Reapers finnici e si innalza quello recante il simbolo, quasi da squadra di calcio, dei (nuovi) In Flames: toccherà a loro intrattenere il pubblico ora, e a rendere più piacevole l'attesa degli headliner. Come sempre un loro show suscita curiosità poichè se è ben nota la qualità in sede live della band, la setlist è sempre un'incognita e molto spesso scontenta i fan più vecchi per la poca importanza data a album immortali quali Jester Race e Whoracle.
L'intro del concerto è come sempre ironica e scherzosa (chi ricorda quando usavano il tema di Austin Powers?): la sigla di Supercar, celeberrimo telefilm di ottantiana memoria. Stavolta l'intro è supportata dall'elemento scenografico, delle strutture trasparenti con dei led imitanti quelli sul musetto di Kit che abbracciano la batteria. Ottima trovata ed ottimo impatto... I 5 svedesi partono subito fortissimo. Come tradizione tocca ad una canzone di Clayman aprire le danze. Questa volta gli infiammati si affidano a Pinball Map e a giudicare dalla reazione del pubblico la scelta si rivela azzeccata. Visto dall'alto il "parterre" è impressionante nel suo movimento caotico che ne abbraccia praticamente la metà; una zona pogo degna degli headliners. In questo primo frangente i 5 scandinavi lasciano parlare la musica e senza proferir parola fanno seguire a Pinball Map, Leeches, Cloud Connected e Trigger. Il suono è ottimo, corposo e perfettamente bilanciato, tutti gli strumenti sono perfettamente equilibrati e nessuno prende il sopravvento. Continua ad essere ottima anche la reazione del pubblico, caldo come non mai.
Con la schiacciasassi e immancabile Behind Space si apre la parte centrale dello show che risulterà poi essere votata al passato, e non a caso, a mio modesto parere, più intensa. L'esecuzione è come sempre impeccabile e cala come un machete sul pubblico che sembra tarantolato nei movimenti. La seguente canzone è un inedito in sede live: Resin. Arriviamo cosi al momento più alto dello show: l'anthemica Only For The Weak che non fa altro che confermare l'avvezzità delle canzoni di Clayman a una buona resa in sede live. Fridén la annuncia esprimendo il desiderio di vedere tutto il pubblico saltare e la platea non si fa pregare: è una visione impressionante vedere gli astanti saltare come un uomo solo. Questa canzone riserva anche un episodio che farebbe piacere vedere più spesso: un ragazzo fa stage diving, arriva nella fossa dove ci sono i buttafuori e si avvicina, cantando, a Fridén che si accuccia verso di lui per poi porgergli il microfono e fargli cantare le ultime frasi del verse... un gesto piccolo ma che fa piacere vedere e testimoniante l'ottima intesa tra band e pubblico. Lo show procede con una sorpresa, sicuramente graditissima dai fan di vecchia data: Graveland tratta da Jester Race. Fridén chiede in questo caso un mosh pit di tutto rispetto e ancora una volta viene accontentato.
E qui si chiude la parentesi "nostalgica" dello show ed entriamo nella parte finale dedicata agli ultimi due album della band. Momento di relax con la semi-ballad, nonchè title track, dell'ultimo Come Clarity. Emozionante ma forse un po' fuori contesto in un manifesto di cattiveria come l'Unholy Alliance. Ad essa seguono i due singoli apripista di Soundtrack To Your Escape e Come Clarity. Torna l'adrenalina e il pubblico in delirio lo dimostra. Siamo alla fine, gli In Flames ci lasciano con un'ultimo regalo che completerà questi 50 minuti di show: la violenza controllata e quasi intimista di My Sweet Shadow.
Doveroso dire che è impressionante vedere come cresce questo gruppo di 5 svedesi ad ogni sua calata su suolo italico. Ottimo il rapporto con il pubblico grazie all'ormai rodato frontman Fridén. Sussistono sempre i problemi di setlist che anche in questo caso hanno visto escluso un album che meritava di essere rappresentato degnamente (Whoracle) ma con un'oretta scarsa a disposizione non si poteva fare di più, come lamentarsi di una band che live offre uno show di qualità che solo pochi saprebbero eguagliare? Se il "probably the best band in the world" che si può leggere su alcune magliette del gruppo che fanno il verso alla birra Carlsberg è una simpatica e voluta esagerazione, è palese come questa band oramai rappresenti più di una promessa nel mondo del metal anzi si candidi a prendere il posto di alcuni mostri sacri quando essi non ci saranno più.

Appena conclusa la prova della band svedese, ecco che iniziano i preparativi per l'esibizione del piatto forte della serata. Pacchiana e scarna come da tradizione, la scenografia che dovrà accogliere le quattro "divinità" del thrash si presenta con due immense croci rovesciate composte da amplificatori marshall che raggiungono quasi i dieci metri d'altezza e da un fondale dotati di drappi e di uno schermo su cui successivamente durante lo show verranno proiettati video preparati ad hoc con cover degli album e collage di immagini di vario tipo (soprattutto della seconda guerra mondiale). Batteria rialzata ed unico microfono al centro del palco. Tutto quanto pronto e il pubblico attende solo il fatidico abbassarsi delle luci per poter dar via al classico macello fisico e sonoro che ad un vero concerto degli Slayer non può mancare. Ed ecco che il momento tanto attesso finalmente giunge: all'alba delle dieci di sera, in un Mazda Palace gremito, dopo un'intro cacofonica ricavata da spezzoni di vecchie song, Disciple apre letteralmente le danze (se così si possono chiamare...). Come un unico organismo, i fan si muovono e si dimenano, trasformando la pista del palazzetto in una bolgia infernale.
Araya e soci partono a mille, con i suoni migliori della serata e con un atteggiamento e delle movenze ormai collaudate da anni. Sembrano passati secoli dalla scialba esibizione di due anni fa (e del Gods Of Metal 2005), la band è in grandissimo spolvero come dimostra la voce di Tom, meno spenta e più tagliente, ma soprattutto il drumming devastante di mr. Lombardo: il cubano è il vero e proprio motore del carro armato Slayer, la sintesi perfetta del suond estremo. Impossibile rinunciare ad un simile elemento ed ad un musicista di tale caratura.
Consci dei desideri del pubblico, i quattro californiani progettano una scaletta a dir poco perfetta, pescando dal loro repertorio passato, dai dischi più importanti e più amati, concedendosi anche qualche guizzo nel moderno, ovvero nel loro ultimo lavoro Christ Illusion (ma questo era scontato). Infatti una dietro l'altro i Nostri tirano fuori dal cilindro l'immancabile War Ensamble, sempre una vera bomba dal vivo, Blood Red, song a cui sembrano essere particolarmente affezzionati, e dal passato più profondo Die By The Sword, introdotta dall'ormai consueta presentazione ("If you live by the sword, you will die by the sword!"), e Chemical Warfare, che ci spediscono con prepotenza a quel suond maligno e sulfureo che caratterizzava i primissimi dischi.
Araya, invecchiato alquanto per colpa di una folta barba, è il vero e proprio trascinatore, unico a parlare ed unico ad essere illuminato tra una song e l'altra con un fascio di luce bianca. Come al solito sembra molto contento di suonare in Italia tanto da azzardare qualche parola in italiano e da quasi emozionarsi dopo che alcuni fan nelle prime file lanciano sullo stage un lenzuolo colorato con la scritta Slayer che il buon vecchio Tom posizione appena sotto la batteria lasciandolo in bella vista per tutto lo show.
Ma oltre a queste scene divertenti (che dimostrano una maggiore voglia e sicurezza rispetto alle ultime uscite) quello che rimane veramente sono le canzoni: Season In The Abyss, con il suo incedere lento e diabolico, Mandatory Suicide, South Of Heaven e la sempre amatissima Dead Skin Mask, presentata come una canzone d'amore ("A romantic tale...") e cantata a gran voce dal pubblico. Ma è doveroso anche ricordare la buona resa live di canzoni nuove come Cult, chiamata spesso dai fan, e di Eyes Of The Insane, cosa che in parte dimostra il buon lavoro fatto nell'ultimo disco (a da una parte della critica a mio avviso sottovalutato).
Insomma tutto perfetto è arricchito dalle ciligine provenienti direttamente dal "sacro" Reign In Blood: una Postmortem da paura, Raining Blood suonata in maniera leggermente diversa dal solito ma che non perde un colpo neanche dopo ventanni e soprattutto una Angel Of Death da incorniciare, qualcosa di fantastico, a chiusura di una prova stupefacente e con Lombardo scatenato alle pelli, tanto da lasciare in molti a bocca aperta durante lo storico passaggio di batteria alla fine degli assoli.

Saluti finali, standing ovation, lancio di plettri e bacchette su un pubblico che proprio non sembra voler abbondanare il Mazda Palace e la speranza di sentire qualche altra canzone. Si conclude in questo modo il secondo Unholy Alliance nella sua tappa italiana. Spettacolo puro che sicuramente non avrà fatto rimpiangere i quaranta euro spesi e il servizio in alcuni casi non di livello elevato.

Report: Stefano "Pestilence" Magrassi e Massimiliano "hedon" Barbieri
Foto: Andrea "AFTepes" Sacchi

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