Di supporto all'uscita del loro terzo disco Whales and Leeches, i Red Fang volano da Portland alla volta del vecchio continente. Chi siamo noi per dir di no? La tappa scelta dal nostro manipolo è al di fuori del territorio italico, verso le fredde lande orientali in direzione dell'entroterra sloveno.
Il viaggio on the road ci immerge in paesaggi da Scandinavian black metal, altro che stoner e southern.
Fra vari disagi legati al tempo (ma anche esistenziali), acquisto on the fly di catene da neve, uscite mancate, strade bloccate una volta giunti a Ljubljana centro, arriviamo in una zona che ci dà forti indizi d'esser quella giusta.
Troviamo facilmente l'ingresso del Channel Zero, il mitico locale rock dove si esibiranno le band. L'impressione è ottima: il posto è piccolo quanto basta, sullo stampo degli storici locali underground USA di un tempo, le birre grandi vengono 2€ l'una, l'impianto è di buon livello, l'ingresso psichedelico di grande impatto, così come le decorazioni tendenti al gothic rock degli interni.
Appunto per chi volesse passarci: quando i ticket sono sold out, sono sold out; non sperate di poter acquistare altri biglietti una volta arrivati (noi eravamo a corto di uno e siamo riusciti a trovarlo per pura fortuna).
Prima di passare al "box office" e farci cambiare i ticket con braccialetti della Dirty Skunks (l'organizzazione che si sbatte per far arrivare la musica alternative e underground nella città), essendo arrivati in anticipo, aspettiamo sull'uscio per un po' da soli, mentre intorno a noi passano avanti e indietro non solo i gestori del posto, ma anche alcuni membri di tutte e tre le band.
Aprono le danze i Lord Dying, concittadini dei Red Fang, che hanno pubblicato il loro debut Summon the Faithless nel 2013.
Il quartetto è un violentissimo e acido schiacciasassi sludge-thrash, in cui finiscono in dosi eguali per sound, efferatezza ed abilità tecnica sia gli High on Fire che i Crowbar. I breakdown che Butt-head definirebbe "slow and fat!" non si fanno mancare, ed esaltano la platea.
Sono addirittura accolti quasi fossero headliner i successivi The Shrine, trio da Los Angeles. Autori di Primitive Blast (2012), sono qui in tour anticipato per il loro secondo Bless Off, che uscirà in marzo.
La formula è un hard rock tanto rispettoso dello spirito dei 1970s, quanto ammodernato da velocità e ferocia di stampo hardcore: non certo un mero revival, non siamo in zona Wolfmother. Si sente la lezione di band come T2, Buffalo, Quatermass, ma su tutto prevale lo spirito (e le progressioni armoniche) di Motörhead e MC5, rivisitato nel modo grezzo e dissonante di molto garage anni 2000.
Il basso abrasivo di Courtland "Court" Murphy e lo spirito caciarone-iperattivo di Josh Landau a voce e chitarra ("Hey, noi veniamo dalla California, un posto dove non nevica MAI"), che termina lo show con un lunghissimo assolo infuocato alla Ted Nugent, fanno il resto.
E si arriva così ai Red Fang, che ringraziano tutti di aver sfidato la "snowstorm" per venire a vederli, e partono subito con uno dei loro capolavori, Hank Is Dead.
La setlist è sostanzialmente divisa in modo equo tra il loro ultimo Whales and Leeches e il precedente Murder the Mountains, e i pezzi di entrambi sono valorizzati da una potenza e perfezione d'esecuzione magistrali, che mostrano non solo un miglioramento del quartetto rispetto ai tour dell'album precedente, ma anche una stupefacente carica energetica per un gruppo che sta macinando un concerto al giorno da un mese sfidando le pessime condizioni climatiche diffuse in tutta Europa. Le piccole dimensioni del Channel Zero non fanno che esaltare l'esperienza, avvicinando al massimo band e pubblico.
I pezzi di Whales and Leeches trovano nella dimensione live una forma ancora più convincente, grazie all'aggressività portata al massimo: No Hope, Voices of the Dead, DOEN e 1516 suonano al loro meglio, doppiando la loro versione su disco.
I relativi rallentamenti di ritmo di Throw Up, Malverde e Into the Eye sono inseriti saggiamente nel flusso per dare respiro ed evitare arresti cardiaci.
La folla esplode, e giustamente, durante le memorabili Number Thirteen e Blood Like Cream.
L'unico momento tratto dal loro primo Red Fang arriva appena verso quasi metà concerto, con la trascinante Sharks.
Dopo aver concluso con la micidiale doppietta di Blood Like Cream e Wires, i quattro salutano e appoggiano gli strumenti; è evidente che non può essere finita così, quindi dopo un paio di minuti di "We want more", tornano sul palco: "We're glad you want more, 'cause we're not done yet either!", e conseguente boato.
Il finale è dedicato interamente al finora quasi escluso primo disco: Good to Die, e, ovviamente, l'immancabile Prehistoric Dog come conclusione. Quello che può comodamente essere considerato uno dei più grandi inni di tutto lo stoner post-2000 manda la folla letteralmente in delirio. Il pogo, presenza quasi fissa durante tutto il live, tocca il massimo, così come i numeri di stage diving (che personalmente non apprezzo, dato che costringono tutti a distrarsi dalla band per evitare contusioni), tanto che lo stesso Aaron Beam si fa cadere di schiena sulla folla, e manda in stage diving il basso dopo l'ultimo accordo.
Per quanto mi riguarda, l'unico grande assente di questo live stellare è stato Reverse Thunder, un gioiellino del loro album omonimo con cui avevano da subito dimostrato di saper battere i Queens of the Stone Age sul loro stesso campo da gioco, ma per il resto non ho nulla da obiettare. Dopo aver stretto la mano a Bryan Giles e Aaron, così come a Erik Olson dei Lord Dying (incrociato nel corridoio: pare la persona più tranquilla e bonaria del mondo, l'opposto esatto di come suona e canta), ci pigliamo un po' di merchandising (la T-shirt di Whales and Leeches, artwork indubbiamente tra i migliori del 2013, era quasi d'obbligo), e poi via, da un'overdose di sludge-stoner alle innevate e spettrali strade del ritorno.