C'era grande attesa per la data milanese del Priest Feast, tour che vede sullo stesso palco tre autentiche leggende della musica Metal internazionale: Judas Priest, Megadeth e Testament...
Già dal pomeriggio, durante la solita interminabile attesa davanti ai cancelli (nella speranza che si aprano all’orario prestabilito), l’orda di metalheads presente davanti al PalaSharp lascia intendere un’audience ottima per questo ricco Priest Feast. Nonostante le tre band in scaletta abbiano fatto visita solo lo scorso anno nel Bel Paese, l’attesa nell’atmosfera è palpabile, resa ancor più concreta al momento dell’apertura quando, finalmente ci viene accordato l’ingresso in un nebbioso PalaSharp.
Giusto il tempo di agguantare la prima birra e le luci calano per l’arrivo su un palco povero di scenografie e senza fronzoli degli opener di lusso: i Testament. Il massacro non si fa attendere, Chuck & Friends salutano il loro pubblico con The New Order e subito vengono accolti con gran calore e violento trasporto. Ovviamente, come in ogni festival che si rispetti, il suono degli openers rasenta l’oscenità: il basso di Christian è quasi assente, la chitarra di Skolnick copre quasi completamente il suono della rhythm di Peterson e solo la voce si presenta forte e chiara, merito anche del timbro ormai completamente ristabilito del gigantesco singer indiano. Situazione, questa dei suoni, che andrà fortunatamente migliorando man mano che il quintetto dell’O.C. snocciola alcuni dei suoi più acclamati successi, quali la già citata The New Order, Alone In The Dark e More Than Meets The Eye, autentica perla tratta dall’ultimo full lenght The Formation of Damnation. Ragguardevole anche D.N.R., eseguita magistralmente, che ottiene l’effetto desiderato sul pubblico, il quale risponde a tono scatenandosi nel pogo; notevole la performance di Bolstaph che ancora una volta da prova di saper tenere testa senza problemi al mostruoso predecessore Lombardo. Dopo Practice What You Preach, i Testament si congedano con The Formation of Damnation, tra la soddisfazione per l’ottima prestazione (che, come al solito, è stata pienamente all’altezza delle aspettative) e la delusione per i tre quarti d’ora scarsi della sua durata.
La già trepidante attesa delle centinaia di headbangers presenti diventa impaziente quando, sul palco, si scopre il familiare muro di Marshall di proprietà di un certo chitarrista rosso crinito, pronto a sputare una valanga di decibel Produced in California: Megadeth! Al calare delle luci inizia l’intro di Sleepwalker e la folla esplode quando arriva on stage la chioma fulva di Dave Mustaine, che sa far cantare come nessuno le note delle successive Wake Up Dead, Take No Prisoners e Skin O’ My Teeth alla sua fiammante Dean. La band è in forma smagliante, i pezzi sono eseguiti quasi al doppio della loro velocità originale ed i suoni si rivelano pressoché perfetti, con il risultato di un'audience visibilmente compiaciuta, che dimostra l’apprezzamento accompagnando MegaDave nelle lyrics e prodigandosi in violenti moshpits. Si susseguono nella scaletta masterpieces del calibro di In My Darkest Hour e Symphony Of Destruction; con Hangar 18 Chris Broderick dimostra la sua già nota bravura ed impeccabilità nel botta e risposta di solos con il leader, mettendo così in bella mostra due chitarristi superlativi, supportati della ben rodata sessione ritmica composta da James Lo Menzo e Shawn Drover. Mustaine annuncia il termine di questo set incendiario tra la costernazione generale, e con Holy Wars, che manda in visibilio l’intero palazzetto, i Megadeth abbandonano la postazione, lasciandoci tutti in uno stato d’animo post-coitale.
Anche se magari alla lunga può risultare un cliché, un classico è sempre un classico. Ed è proprio con un classico che abbiamo a che fare quando, sul finale di War Pigs le luci sul palco rivelano la ben nota scenografia (già proposta nel tour di Angel Of Retribution, con doppia pedana coordinata di scalinate ed ascensore e batteria sollevata) ed i Judas Priest attaccano con Prophecy. Il rapato più famoso del panorama Heavy appare on stage avvolto in un mantello luccicante ed armato del suo fido microfono, iniziando a deliziare le orecchie dei presenti (o almeno questo era l'obbiettivo). La partenza sembra buona: la doppietta Downing-Tipton è, come al solito, un esempio di melànge chitarristica, supportata dal poco visibile Hill e dall’impeccabile Travis. Tuttavia, sebbene il suo carisma e la sua presenza scenica siano quelli di sempre, la voce di Halford sembra purtroppo peggiorare anno dopo anno. Stessa storia vista al Gods: i pezzi spesso e volentieri cantati un’ottava sotto rispetto alle versioni in studio e sempre più incursioni del pubblico nelle parti vocali richieste dallo stesso Rob, in modo molto evidente nei passaggi più difficili. La scaletta, infarcita di leggendarie cavalcate Heavy come Rock Hard Ride Free, Metal Gods, Breaking The Law, Electric Eye, giusto per per citarne alcune, lascia spazio anche a chicche come Eat Me Alive, Sinner e Between The Hammer And The Anvil. La tanto agognata Painkiller è piuttosto piatta, Rob è evidentemente affaticato, e ovviamente dell’acuto non se ne parla. Arriva poi il momento dei bis: Hell Bent For Leather, The Green Manalishi ed infine You’ve Got Another Thing Coming, che chiudono uno show piuttosto scialbo dei Judas Priest, con non poca nostalgia verso i Preti che furono…
E’ sempre piacevole vedere una band storica come i Judas Priest sul palco, ma ogni volta il pensiero che forse sia arrivato, anche per loro, il canto del cigno si intrufola sempre un po’ più a fondo nelle nostre menti.
Susanna "Sushi" Moro