Dave Eugene Edwards -Vocals
Chuck French - Guitars
Gregory Garcia Jr. - Bass
Ordy Garrison –Drums
Alexander Hacke – Mix, Various Strings
01 LONG HORN
02 THE LAUGHING STALK
03 IN THE TEMPLE
04 KING O KING
05 CLOSER
06 MAIZE
07 COUP STICK
08 AS WOOL
09 GLISTENING BLACK
The Laughing Stalk
‘Un’ottima annata’ - per citare un famoso film – per i tanti, troppi ritorni, questo 2012, tra i quali anche quello del nostro ‘preacher’ preferito, WovenHand, cioè Dave Eugene Edwards.
Tale è la densità di questo disco che è meglio entrare subito nei dettagli senza troppi preamboli (del resto le prerogative del nostro sono esattamente le stesse di quando ha cominciato diciotto anni fa e non potrebbe essere diversamente) a parte le dovute informazioni sui cambi nella formazione che vedono Chuck French alla chitarra e Gregory Garcia Jr. al basso, mentre la produzione è affidata ad Alexander Hacke (Crime & City Solution, Einsturzende Neubauten e Bad Seeds).
La traccia iniziale, Long Horn,è un voodoobilly alla Jeffrey Lee Pierce (chi ricorda Stranger In This Town?) ma infarcito di effetti tremolo come avrebbero fatto i vecchi Cramps, ululati garage compresi. I consueti toni biblici verranno subito ripresi nella successiva The Laughing Stalk, brano che - traslato in acustico - potrebbe benissimo far parte del miglior repertorio dei suoi vecchi 16 Horsepower. Il tono epico che si solleva – come anche in In The Temple - ha più che mai un richiamo diretto a certa dark music e non dovrebbero esserci ormai più dubbi sul fatto che David sia stato capace di fondere in maniera ineccepibile e cinematografica il gotico americano dei suoi sermoni con il gotico del rock inglese degli eighties: quelle chitarre e quel tono enfatico non sono affatto lontani dai primissimi Cult, quelli stranamente legati a certi culti indiani, quelli di Resurrection Joe e lontani dalla svolta mainstream che il loro hard avrebbe preso nella grebo era e volendo potremmo pure chiamare in causa gli australiani The Church quando erano ancora lontani dal successivo pop accomodante ed erano inizialmente artefici di una wave a tratti oscura e psichedelica capaci di creare distese di suoni azzurri ed oro. Dave Eugene Edwards prende tutta questa materia e la ricopre con i pesanti arazzi della sua personalissima santa inquisizione dai toni westernati.
E poi c’è sempre lo spettro di Ian Curtis che si aggira fiero come mai avrebbe potuto in vita, privato del guinzaglio divino del Signore che invece continua ad attanagliare il collo di Dave Eugene Edwards: il drone di In The Temple è un falso allarme che preannuncia questa presenza prima che la parabola si tinga di un cupo rosso sangue dai riverberi desertici.
King O King, programmatica nel titolo, è selvatica come un coyote affamato che vaga nella scura notte dell’anima in cerca della luce e di una fede che può mordere ed essere tagliente, che può soffocare. L’alto grado di ossessività della traccia richiama il Nick Cave più invasato.
Closer è una marcia wave claustrofobica e ansimante: ancora Joy Division quindi (ma anche Xiu Xiu) a partire dal nome, ma è Maize che coniuga la desolazione urbana a quella degli spazi sconfinati di certa ‘wild America’, rivelando che infine è la stessa, quella celata in fondo al cuore e che ‘la divinità’ non allevia mai privandoci di qualsivoglia forma di conforto o di speranza; la religione di Dave Eugene Edwards è quella votata al culto di un Dio arcigno e bastardo che ci ha scagliati su questa fredda pietra nera senza alcuna possibilità di affrancamento dal peccato (al di là delle convinzioni religiose del nostro, a livello di immagini, egli dovrebbe rientrare nel novero dei grandi narratori della tradizione americana).
As Wool poi è un esempio superbo di ‘resistenza’ rock and roll nel nostro tempo: una cavalcata apocalittica con la voce lontana, filtrata da uno di quei vecchi microfoni utilizzati nel blues, con una batteria crudele ed una forte suggestione a dominare: quella di una versione stoner dei Gun Club! Il riff è velenoso ed il brano termina – come da tempo non si sentiva - con le chitarre in feedback.
Il fangoso girotondo Birthday Party di Glistening Black chiude le danze di questi grotteschi fantasmi di epoche lontane e potrebbe essere un suggerimento per Jamie Stewart nel caso in futuro volesse dare una svolta meno intimista e cerebrale ai suoi Xiu Xiu.
Quando sulla scena irrompono personaggi con l’enfasi e la possessione di Dave Eugene Edwards c’è il rischio che di colpo tutto intorno sembri piatto, che gli altri artisti diventino un pò nani, ma si fa strada anche la falsa illusione che sarà qualcosa di simile alla fede – qualunque essa sia – a salvare ancora una volta le sorti del rock and roll.