- Andrew Moore - Piano and Piano
- David Brewis - Frettless Bass and Mixmastering
- Emma Fisk - Violin
- Jennie Redmond - The Voice of Humanity and Analysis
- Jordan - Hi-hats
- John Beattie - Just one Cornet
- Laura Cullen - Flute
- Pauline Brandon - Violin
- Peter Brewis - Lead Marimba, Singing
- Peter Gofton - Vibraphone and General Vibes
- Peter Richardson - Cello
- Richard Amundsen - Hollering
1. Learn To Learn
2. Good Life
3. Story Waits For No One
4. It's All Gone Quiet
5. The Airport Line
6. Yesterday's Paper
7. Come Home
8. Scratch The Surface
The Week That Was
E' cosa risaputa che il pop di qualità raramente incontra il successo. I motivi sono essenzialmente riconducibili a due fattori preponderanti: l'ascoltatore, chiamiamolo così, della Domenica generalmente dedica i propri padiglioni auricolari al pop becero, dozzinale, quello da classifica senza troppi patemi e pretese, affaccendandosi nel frattempo a spolverare e rimettere casa in ordine, o peggio ancora affidando il dischetto al lettore della propria autovettura, mentre intento alla guida si concede al dialogo o a mandare messaggini e solo casualmente presta l'orecchio a ciò che viene irradiato nel proprio abitacolo; l'ascoltatore attento, scrupoloso che ritiene la musica una cosa anche seria, ben difficilmente si avvicina al proprio impianto stereofonico con l'intento di metter sù un disco pop, essendo evidentemente rapito da argomenti musicali ben più colti e impegnativi. Il risultato di tutto ciò rimanda direttamente alla prima riga: il pop di qualità vive molto spesso a metà del guado e soltanto occasionalmente riceve i meritati consensi.
Peter Brewis reduce, col fratello David, da un paio di prove alquanto incolori, invero piuttosto apprezzate però, sotto la sigla Field Music, decide di riciclarsi con questo curioso nome e sul finire dell'estate appena trascorsa dà alle stampe l'omonimo album di debutto.
Nulla di nuovo sotto il sole verrebbe da dire ascoltando queste otto tracce per appena trentadue minuti di musica. Nulla di nuovo non fosse che stavolta il lavoro di cesello è infinitamente più marcato e preciso in confronto alla fonte originaria.
Laddove l'incedere pop era piuttosto convenzionale e, perché no, moderatamente stucchevole, stavolta l'impatto pur rimanendo decisamente abbordabile, si è fatto sensibilmente più maturo, complesso e stratificato. Facile ma non immediato, orecchiabile ma non svenevole, malinconico ma non piagnucoloso.
Fa capolino anche un certo gusto per melodie vagamente barocche come nei sette minuti di Yesterday's Paper oppure nella successiva trasognata Come Home con un'introduzione degna dell'Alan Parson dei giorni migliori.
Eccetto rari passaggi, tutto l'album è sostenuto da una sensibile e presente sezione ritmica tramite una dorsale percussionistica che risalta fin dal primo ascolto. Innegabile l'influenza esercitata su di loro dagli XTC, gruppo che non ha mai raccolto per quanto seminato, autori di un pop alternativo sempre in bilico fra la linearità dei Beatles e l'andatura sghemba degna di certa psichedelia più terrena e fruibile piuttosto che allucinata e visionaria.
Difficile indicare un brano che si innalzi sugli altri, giacché non ci sono cadute di stile col risultato finale di convincere più in toto anziché nei singoli episodi evidentemente però molto validi. Disco che vive di pregi (molti) e difetti (pochi) tipici della musica popolare. Canzoni brillanti costruite con un gusto innato per la melodia e abbellite, a volte anche eccessivamente, da una ricchezza di strumentazione che soltanto con ripetuti passaggi si può assaporare pienamente.
Questa sera agghindatevi con un fiore all'occhiello, una goccia del vostro profumo preferito, un sorriso smagliante e ascoltatevi i The Week That Was. Ne beneficerà il vostro spirito.