- Peter Hammil - Composizione, Chitarra, Voce
- Hugh Banton - Tastiere
- Guy Evans - Batteria
- David Jackson - Fiati
1. Darkness (11/11)
2. Refugees
3. White Hammer
4. Whatever Would Robert Have Said?
5. Out of My Book
6. After the Flood
The Least We Can Do Is Wave to Each Other
Tra le più interessanti e valide realtà della scena progressive d'inizio anni '70, troviamo i Van Der Graaf Generator, ovvero la band di quel Peter Hammil che sconvolgerà per sempre la storia della musica con le proprie note. Presentatisi al mondo nel 1969 con Aerosol Grey Machine, la band inglese comincia a compiere i primi grandi passi con l'uscita di The Least We Can Do Is Wave to Each Other, un disco dal titolo mastodontico quanto i suoni che si celano dietro di esso, un misterioso giardino nascosto in cui la band ammaestra e fa volare fiori e colori, spaziando all'interno dell'animo umano colpendo l'ascoltatore con la profondità di una musica che a quel tempo venne involontariamente oscurata dai masterpiece di band quali Yes e King Crimson, allora i punti più alti del progressive made in England.
Ma nonostante tutto il gruppo di Hammil non si fece intimidire, anzi scoprì nuovi orizzonti verso i quali indirizzare una musica che al tempo risultò una (poco notata) rivoluzione, stilistica e tematica, che mise il proprio stendardo su superfici ancora inesplorate dalle concezioni moderne. Non si sta parlando di una musica sperimentale fino al midollo, nè di suoni portati avanti da schizofrenie artistiche esagerate, bensì di un nuovo modo di concepire i suoni e di assimilarli per poi ripresentarli all'ascoltatore in maniera sapiente e originale.
Con The Least We can Do Is Wave to Each Other i Van Der Graaf si concentrano ancora di più tentando di ampliare la proposta musicale che col precedente disco del '69 non era ancora riuscita ad affermarsi, e di ciò sono due esempi lampanti i capolavori che portano il nome di After The Flood e Darkness (11,11), due perle dove gli strumenti danzano in maniera elegante, lasciando all'ascoltatore il compito di far propria questa bellezza notabile solamente attraverso lo spioncino di quella porta che una volta aperta ci risucchia in atmosfere favolose in cui la realtà e il sogno camminano di pari passo. Le strutture ritmiche sono concepite nel minimo dettaglio e non c'è da spaventarsi se ogni tanto qualche fuori tempo esce fuori per scombussolare il pubblico, e non bisogna assolutamente tirarsi indietro se le soffici e candide atmosfere descritte dalla voce di Hammil e dagli altri strumenti si tramutano negli oscuri passi di una belva inferocita, si passa infatti dai refrain più sostenuti alle aperture più soffuse ed ariose. Altro esempio di questo alternarsi di fasi strumentali è la coinvolgente Whatever Would Robert Have Said, in cui le emozioni si susseguono a raffica donando all’ascoltatore la pace e la quiete di alcuni suoi riff, fino a scombussolarlo con le incalzanti note su cui poi la canzone si sviluppa, proprio come per White Hammer, altro affascinante brano ricco di emozioni, basti pensare al suo fantastico finale che racchiude l’ascoltatore in turbini d’oscurità e inquietudine. Per non parlare poi della splendida ballata Refugee o ancora delle soffuse note della attraente (anche se meno incisiva) Out Of My Book, altre due canzoni dal notevole contenuto artistico, anche se su livelli leggermente inferiori rispetto alle sopracitate canzoni.
Così gli organi e le tastiere di Hugh Banton, la chitarra e la voce di Peter Hammil e infine i fiati del grande David Jackson diventano le chiavi di questa musica votata non solo alla bellezza stilistica, ma anche alla profondità esistenziale; non ci sono infatti quelle atmosfere fiabesche di cui King Crimson e Genesis erano i cantori, bensì la band di Peter Hammil si sposta su meandri molto più interiori e capaci di scavare nelle caverne dell’animo umano.
Gli psicodrammi e le inquietudini che avvolgono i Van Der Graaf Generator sono per questo fondamentali per capire appieno ciò che si cela dietro ogni misteriosa copertina del gruppo. La drammaticità e l’intensità emotiva che la band ha saputo slegare attorno ogni nota ha fatto sì che il “Generatore” divenisse una grandiosa ed originale realtà per il panorama progressive rock dei ’70, quel periodo non fatto solamente delle intoccabili perle di un Robert Fripp qualsiasi, ma reso grande anche dai fremiti, dai sussulti, dalle lacrime e le risate che Peter Hammil, uno dei più grandi compositori di sempre, ha saputo immettere nella propria musica che, oggi come oggi, è un mistero che ancora in molti devono scoprire.