1. Intro
2. Chemistry
3. Hold My Hand
4. Restless
5. Keys to the Kingdom
6. Burn My Shadow
7. Mayday
8. Persons and Machinery
9. Twilight
10. Broken
11. When Things Explode
12. Price You Pay
13. Morning Rage
14. Lawless
War Stories
Ritornano gli Unkle di James Lavelle a distanza di quattro anni da Never Neverland. L'attesa per la formazione inglese, nonostante le frequenti stroncature da parte della stampa anglofona, è sempre stata alta fin da quando, sotto l'egida di DJ Shadow, esordirono nel 1998 con il controverso Psyence Fiction, sintesi di hip hop, contaminazioni elettroniche, samples a dismisura e rifiniture di contorno che spaziano dal trip hop al pop più effettato all'ambient. Un progetto inizialmente ambizioso, anche per la forte presenza di guest stars a caratterizzare ogni uscita, ma che nel corso degli anni non ha mostrato una costanza all'altezza della fama anche esagerata (in contrapposizione ad altre denigrature eccessive) di cui godono in ambito electro-hop e alternativo, alternando alti e bassi, pregevoli spunti interessanti ed altri più piatti e impersonali, momenti di esaltazione ed altri vissuti un po' all'ombra di autori come lo stesso DJ Shadow o altri gruppi come i Primal Scream (in particolare dopo la pubblicazione del loro XTRMNTR nel 2000).
Questo War Stories segna una sorta di svolta nella loro discografia: nuovi collaboratori, nuova etichetta (un po' a sorpresa visto il ruolo storico che ebbe la MoWax) e nuovi orizzonti musicali che segnano una visibile accentuazione del lato pop/rock, caratteristica che poteva essere un po' prevista dopo l'ingaggio di Chris Goss (già noto per aver lavorato con i Queens Of The Stone Age) come produttore. Questo infatti non è solo un "loro album più rock", ma proprio un lavoro prettamente inquadrabile nel genere, come già ci viene mostrato (dopo l'intro) da Chemistry, incalzante strumentale fra Radiohead e ultimi The Gathering. Ma non fraintendete, anche se l'approccio in molte canzoni è visibilmente più affine all'impiego di chitarre che in passato, questo rimane un disco in ogni caso dalla forte connotazione elettronica, come già ci rammenta l'electro-rock di Hold My Hand (fra synth pop, Gorillaz, Primal Scream e Cooper Temple Clause). Un lavoro intriso di quell'effettistica che ha sempre accompagnato gli Unkle e che avvolge ogni loro produzione, sempre ricca di downtempo, cambi di registro, tappeti sonori differenti che si intrecciano, battute interrotte e atmosfere dense e amalgamanti, in quest'ultimo caso come nella sognante Price You Pay, tinta anche di sfumature a la Radiohead.
Il risultato viene condito con il consueto parco di ospiti, fra i quali vi sono personaggi di indubbio richiamo come Josh Homme (proprio dei Queens Of The Stone Age, presente nell'accattivante Restless che in realtà al contrario ha un piglio disco-oriented), Ian Astbury dei Cult (Burn My Shadow, singolo atmosferico e gustoso, e la conclusiva melanconica ballata When Things Explode) o 3D dei Massive Attack (Twilight, versione più pop e soffusa del gruppo in una miscela che ricorda certi Radiohead elettronici, non troppo esaltante in verità, sa un po' troppo di dejavu) che ha anche elaborato la copertina, ma anche i Duke Spirit (la lisergica e vagamente bjorkiana Mayday), gli Autolux (con reminescenze nuovamente dei Radiohead nella a dire il vero un po' sbiadita Persons and Machinery), Gavin Clark dei Clayhill (l'orecchiabile Keys to the Kingdom e la dichiaratamente ottantiana Broken) e, nelle bonus tracks giapponesi e australiane, Lee Gorton e Alice Temple. E come al solito questa scelta si rivela una medaglia a due facce, da un lato offrendo spunti di arricchimento per il sound del disco e dall'altro ingrandendo l'immagine proiettata dall'incombere della spersonalizzazione.
L'altra eredità non molto felice è la poca costanza nel corso del disco, che difatti offre una selezione di brani di cui alcuni discretamente buoni e azzeccati, altri più spenti e con meno smalto, quasi come dei fillers, sia per una certa incertezza e poca incisività nel songwriting, sia per l'altalenante personalità del gruppo. Andando su considerazioni banali, forse se gli Unkle avessero composto meno canzoni (sono ben quattordici, ed in chiusura vi sono la catchy Morning Rage a metà fra anni '80 e '90 e la breve britpopeggiante Lawless, orecchiabile ma non molto originale e nel complesso senza lode e senza infamia) avrebbero prestato maggior cura per le altre ottenendo un risultato davvero migliore. Ma War Stories in questo caso si sviluppa secondo una sorta di andamento irregolare, e non ci sono pezzi che svettano in maniera netta e memorabile, anche fra i più gradevoli, tranne forse con Hold My Hand per le sue piacevoli linee vocali. D'altro canto può essere positivo notare che non si sono perse la consueta ricerca del suono e la passione per le contaminazioni, seppur qui non suonino più fresche ed originali come sarebbero potute esserlo dieci anni fa.
Insomma, il risultato complessivo è al di sotto delle aspettative. Così il cambiamento del gruppo, ricco di potenziale, non trova definitiva compiutezza; intendiamoci, non è un lavoro mediocre, ma la sensazione è che non decolli mai, scorrendo senza troppi salti in maniera un po' incompiuta.
Nota: esiste anche una versione ad edizione limitata che presenta un secondo cd composto delle versioni strumentali dei brani.