- Vibeke Stene - voce
- Morten Veland - voce, chitarra
- Einar Moen - sintetizzatore, programmazione
- Kenneth Olsson - batteria
- Anders Høyyvik Hidle - chitarra
- Rune Østerhus - basso
1. Preludium (01:09)
2. Evenfall (06:53)
3. Pale Enchantress (06:31)
4. December Elegy (07:31)
5. Midwintertears (08:32)
6. Angellore (07:16)
7. My Lost Lenore (06:23)
8. Wasteland's Caress (07:40)
9. ....Postludium (01:12)
Widow's Weeds
Il gothic metal, quello “canonico”, ha già i suoi padri fondatori; e se in cima all’albero genealogico potremmo mettere comodamente i Theatre of Tragedy, subito sotto, e poco dopo, si annidano, a dividere i frutti dell’ingegno norvegese, i connazionali Tristania, che nel 1998 scrivevano una pagina memorabile nel libro di storia del gothic metal, il loro primo full-length Widow’s Weeds.
Se le premesse sono simili a quelle dei Theatre of Tragedy, è anche vero che i Tristania hanno interpretato lo spirito gotico con spirito e strumenti di base affini a quelli dei connazionali, ma con varianti assai vistose. Anzi, a volerla dire tutta, se ai Theatre of Tragedy spetta la paternità del genere, la sua evoluzione e le sue fasi successive sono farina nel sacco dei Tristania, che non per nulla hanno saputo, anche successivamente, mantenersi fedeli alla linee tracciate dai “padrini”. Così, mentre questi ultimi cadevano coraggiosamente in nome di un radicale voltafaccia al genere da loro stessi partorito, i norvegesi proseguivano con tranquillità un cammino ormai personalissimo, sapendosi evolvere senza tradire le idee di fondo, come veri eredi del primo periodo Theatre of Tragedy.
Che i Theatre of Tragedy abbiano influenzato non poco i Tristania è innegabile: basta ascoltare la magnifica My Lost Lenore, che, con quel deciso e melodicissimo andamento di pianoforte, la leggiadra strofa cantata da voce femminile, in contrasto complementare con il ritornello scandito da doppiacassa e sovrapposizione tra growl e screaming maschile, potrebbe accostarsi senza forzature a capolavori targati ToT come A Hamlet For A Slothful Vassall, tanto per citare la più paradigmatica.
Ma i Tristania sono ben altra cosa, sia chiaro. Lo si intende fin dall’intro, Preludium: una porta si chiude, e un coro intona un canto liturgico a più voci. Solo un minuto di pace, di serenità, per poi sobbalzare con l’inserimento improvviso di Evenfall, che delinea le linee essenziale del sound Tristania, sound di magniloquenza, a tratti smaccatamente operistico, più semplice e diretto di quello proposto dai colleghi sopra citati.
Se cerchiamo sul dizionario la parola “preludio”, troveremo una nota che dice più o meno così: Il preludio posto all'inizio dell'opera contiene non di rado temi musicali sviluppati nel seguito della partitura,o comunque assolve alla funzione di definirne il clima e il carattere. Indicativo che i cori del Preludium non vadano infatti dispersi, ma siano ripresi lungo tutto il corso della canzone, solo con maggiore veemenza. Ed è il gusto per il sinfonico la prima innovazione inserita dai Tristania, che risentono della ormai diffusa pratica di sposare sonorità “heavy” a musica classica.
Sono due le anime che si incontrano lungo tutto il percorso dell’album, una più oscura, preponderante, fatta di chitarre distorte che risentono tantissimo del black metal con cui Morten Veland, anima del gruppo (almeno in questi primi tempi), non può non essere venuto a contatto; l’altra soave, delicata e malinconica come una rosa che sfiorisce, espressa dal violino che talvolta si intromette nel corso dell’ascolto, come una parentesi di riflessione tra il vorticoso susseguirsi delle passioni.
Dualismo continuo che trova la sua più scontata conferma nell’interazione tra le due voci, maschile cruenta, raschiante, brutale, e femminile, lirica, a tratti dolcemente soave.
La formula dei Tristania non è poi complicata, anzi: quei riff lenti, ponderati, stridenti, ripetuti con maligna perseveranza, hanno visto nascere l’accusa di una certa staticità, almeno per quanto concerne Widow’s Weeds. Vero è che la prima uscita dei norvegesi si impone come la meno dinamica in assoluto delle uscite. Un certo stato d’animo pervade tutto l’album, qualcosa di avvertibile istantaneamente, una sorta di ferrea determinazione a proseguire a testa bassa, imperterriti, pieni di rabbia. La nostra parte immacolata ci chiama a soffermarci, tenta di bloccarci con un delicato e angelico richiamo, come nella meravigliosa December Elegy:
“May thou carry me to the sea
Like autumn leaves... heaven wither
Savage is the winter prevailing within
I fall for thee... Sorrow entreating me
Makes me leave heaven”
Ma il dolore e l’abbandono si infrangono contro la rabbia, la perversione, l’autolesionismo di chi va’ verso l’oscurità, in mezzo ad una natura maledetta rispecchiante un mondo interiore fatto di freddo, di ghiaccio, di polvere, di fiumi neri: tutte immagini che ritornano in testi che, pur mancando della sottigliezza ed inventiva poetica di quel genio di Raymond, non sono neppure da buttare via. Si può ironizzare forse sulla ricerca di adeguarsi all’inglese arcaico dei Theatre Of Tragedy, e chiaramente fa’ un po’ sorridere vedere come i nostri pensino, un po’ ingenuamente, che basti qualche “thee” o “thou” per dare un sapore antico alle lyrics, ma chiudendo un occhio su questo aspetto, la sufficienza a livello poetico si raggiunge e si supera ugualmente. Anche le pecche di base fanno una pietra angolare del genere.