- Pete Trewavas - basso Warwick, basso Taurus e voce
- Mike Portnoy - batteria, voce
- Roine Stolt - chitarra acustica, chitarra elettrica, voce, Mellotron, tastiere aggiuntive e percussioni
- Neal Morse - pianoforte, organo Hammond, Mini Moog, Rhodes Piano, synth, voce, chitarre aggiuntive e mandolino
Guests:
- Chris Carmichael - violino, viola, violoncello in Stranger in your Soul e Duel with the Devil
- Keith Mears - sassofono in Duel with the Devil
- The “Elite” Choir - cori in Duel with the Devil
1. Duel with the Devil
I. Motherless Children
II. Walk Away
III. Silence of the Night
IV. You're not alone
V. Almost Home
2. Suite Charlotte Pike
I. If She runs
II. Mr Wonderful
III. Lost and Found pt. I
IV. Temple of the Gods
V. Motherless Children
3. Bridge Across Forever
4. Stanger in Your Soul
I. Sleeping wide awake
II. Hanging in the Balance
III. Lost and found
IV. Awakening the Stranger
V. Slide
VI. Stranger in your Soul
Bridge Across Forever
Col termine "prog" si definisce oggigiorno un genere musicale che molti gruppi nati negli ultimi venti anni si sono messi a suonare, sulla scia di alcune band/pilastri di ciò che ora definiamo rock progressivo, quello della "prima ondata" per così dire, al quale questi si rifanno con un fare che sarebbe propriamente definibile come una sorta di manierismo musicale, per sua stessa natura forse non sempre spietatamente genuino e originale ma non per questo qualitativamente inferiore. Il progetto Transatlantic, nato nel 2000, non fa sicuramente eccezione, sebbene originato da varie costole di alcune tra le formazioni più importanti ed influenti del panorama prog moderno. Parliamo di Roine Stolt (cantante, chitarrista e mastermind degli svedesi Flower Kings), Neal Morse (tuttista degli ormai scomparsi - se non altro nello spirito - Spock's Beard), Pete Trewavas (Marillion) e Mike Portnoy (dai più che celebri Dream Theater), la cui sola presenza ha fin dall'inizio connotato il progetto Transatlantic come un side project dell'arcinoto batterista, privandolo, forse immeritatamente, di una identità propria, ma permettendo che la sua sola presenza rappresentasse un potente incentivo all'acquisto dei dischi e alla conoscenza del gruppo in sé, che presto diventerà più noto di alcuni dei gruppi da cui gli altri membri provengono (mi fa ancora una certa tenerezza vedere lo sticker nero della insideout informare l'acquirente che in The Rainmaker, album dei Flower Kings del 2001, c'è anche il chitarrista dei Transatlantic Roine Stolt, che coi Flower Kings aveva già cinque dischi all'attivo quando si è lanciato in questo progetto).
È probabile tuttavia che Transatlantic sia sempre stato, per sua stessa natura, un progetto un po' scevro di identità a sé, essendo il sound di questi lavori riassumibile come una mera commistione degli stili dei musicisti e dei gruppi da cui provengono, oltre che dalle loro influenze, con tutti i pro e i contro della faccenda.
Bridge Across Forever è il secondo capitolo della (presto) trilogia dell'epopea Transatlantic. Il disco per molti aspetti rappresenta un'innegabile evoluzione per quanto riguarda lo stile compositivo della band rispetto al precedente SMPT:e, primo audace capitolo della saga. Gli elementi deliberatamente prog sussitono, ma l'eleganza con cui vengono utilizzati rende questo lavoro molto più digeribile rispetto al precedente album. L'ossessione a scrivere epics permane e delle quattro tracce di cui è composto l'album una soltanto (la title track Bridge Across Forever) si mantiene sulla lunghezza più ortodossa dei cinque minuti. Gli altri pezzi superano serenamente il quarto d'ora di musica, sistemandosi talvolta sui venti minuti se non oltre. La compulsione a scrivere suite è un po' un'arma a doppio taglio di cui il gruppo fa un (ab)uso smodato: chi è abituato ai dischi dei gruppi dai quali i vari membri derivano non sarà sicuramente stupito dalla lunghezza inusuale delle quattro canzoni; d'altro canto, constatare che si è ancora alla prima traccia dopo quindici minuti dall'inizio del disco può risultare scoraggiante. L'unica cosa che ci si può augurare è che questi quindici minuti siano pregni di contenuti.
E spesso è così. La prova dei quattro è, sotto molti aspetti, impeccabile. Il disco è presentato dalla stessa InsideOut come un disco di progressive rock (un'etichetta a dir poco anacronistica, ma è un po' quello l'aspetto divertente) e di prog c'è un po' tutto: composizioni lunghe divise in più parti, lunghi inserti strumentali, temi che si rincorrono, un complesso intreccio tra tutti brani e chi più ne ha più ne metta. Per i patiti del virtuosismo non c'è granché, Bridge Across Forever è un disco composto da gente non proprio illustre per quanto riguarda la perizia tecnica (eccezion fatta per Portnoy, che pure riesce a darsi un contegno dall'inizio alla fine dell'album, rimanendo essenziale e per così dire "sobrio" - questa è cattiva - ). E va bene così. Sì perché nell'enorme pappone di idee e influenze che costituiscono i manierismi in cui i Transatlantic pescano a piene mani per costruire il proprio sound, quella prevalente non è dei King Crimson o degli Yes quanto piuttosto nei Beatles. Nelle melodie come nei testi i fab four faranno capolino continuamente.
Duel with the devil apre l'album e introduce alcuni dei temi che andranno poi a ripresentarsi in seguito. Gli archi in apertura fanno da apripista a cavalcate prog rock dove l'uso multiforme delle tastiere è prevalente. Solo intorno al quinto minuto fa capolino la voce di Neal Morse, che poi canterà gran parte dei pezzi dell'album, lasciando solo saltuariamente la parola a Roine Stolt e, a volte, allo stesso Portnoy, dando inizio ad una lunga serie di sfortunati camei canori del batterista anche in altri ambiti. Per fortuna questi si contano sulle dita di una mano e nel complesso rappresentano un contributo tutto sommato marginale. E dico per fortuna perché tra tutti gli innegabili meriti musicali del batterista niuiorchese sicuramente manca quello della voce, inappropriata per il canto e sicuramente più adatta per rilasciare interviste. Il pezzo, nonostante i suoi ventisei minuti, coglie facilmente l'attenzione dell'ascoltatore: il gusto per la melodia di Roine Stolt e Neal Morse è innegabilmente uno dei motori principali del gruppo (il tema della sezione Walk Away, firmato appunto Roine Stolt, si infila in testa e non se ne va), e i lunghi inserti strumentali fungono da efficace collante tra le altre varie sezioni, creando un ponte continuo tra l'intro di Motherless Children e il tema struggente di chitarra del finale in Almost Home. Un finale strumentale di circa tre minuti, in cui la capacità del gruppo di reinventare le proprie idee risulta determinante per non far sentire il peso di una conclusione che non finisce mai di concludersi.
I temi introdotti in questo brano andranno ad incatenarsi nelle altre canzoni dell'album: Motherless Children si ripresenta alla fine di Suite Charlotte Pike, il pezzo in cui l'influenza dei Beatles si fa più presente (durante l'esecuzione dal vivo del brano, nella tournée successiva all'uscita dell'album, sarà eseguito l'intero medley di Abbey Road, e sentire Daniel Gildenlöw - in veste di turnista - cantare Golden Slumbers è qualcosa per cui sarebbe davvero valsa la pena assistere all'unica performance live in Italia nel 2001). Il vago sapore retrò della canzone si sposa bene con le onnipresenti tastiere che colorano continuamente ogni pezzo dell'album. E l'effetto è sicuramente efficace. Qualcuno si è addirittura sbilanciato affermando che quello dei Transatlantic è il sound che avrebbero i Beatles oggi se fossero ancora attivi. Io non intendo osare tanto ma trovo innegabile avere la sensazione, in questo brano, che da un momento all'altro sentiremo partire "She came into the bathroom window!". Invece inizia la sezione chiamata Lost And Found, e va bene lo stesso, perché abbiamo capito l'intenzione.
Bridge Across Forever risulta probabilmente il pezzo meno efficace del disco dal basso dei suoi cinque minuti e mezzo. Le melodie e la (meritata) calma verso cui approdiamo creano un momento di tranquillità rispetto al delirio prog che ci lasciamo alle spalle (si tratta ormai di quasi quaranta minuti dall'inizio per soli due brani), un pezzo malinconico e di malcelata impronta Neal Morse dove il musicista di Nashville riesce a cullarci con una delle ballad meglio riuscite della sua produzione. Degno di nota il contributo di Prince nella stesura del brano, come riportato nel booklet. Un momento di quiete in preparazione al capitolo conclusivo del disco, Stranger in your Soul. Ed è un'esplosione, il capolavoro indiscusso di tutta la produzione Transatlantic, la giusta conclusione di un viaggio cominciato da quasi un'ora, un trionfo di melodia e di emozione. Gli archi che aprono il brano sono gli stessi che hanno aperto il disco e ci accompagnano verso il tema portante della suite, straordinario leitmotif dei capitoli finali della canzone e dell'album. In questo senso Stranger in your Soul rappresenta anche il lavoro più maturo e meglio riuscito, in termini di realizzazione. In questi ultimi ventisei minuti si fa (più) forte l'impressione di trovarci di fronte ad un'unica canzone, un'unica intuizione, un'unica idea, una serie di riflessi diversi frutto di un'unica emozione, in cui il tema introdotto nella sezione Sleeping Wide Awake fa da ponte tra tutti gli altri passaggi, quelli più propriamente prog e quelli più lenti, accompagnandoci poi verso la fine, dove una lunga conclusione ci porta verso un finale semplice, discreto, in cui il pianoforte scompare con le ultime note di una melodia indimenticabile.
Bridge Across Forever non ha cambiato la storia della musica, i Transatlantic non sono (stati) pionieri di un nuovo modo di suonare e di comporre e nel 2001 aver composto un album dichiaratamente di rock progressivo appare piuttosto anacronistico, almeno quanto scrivere una partitura per pianoforte e orchestra e insinuare che si compone musica classica. Il manierismo dei Transatlantic è permeato da profonda nostalgia, dal desiderio di avere avuto per primi certe idee (come loro stessi affermano in Suite Charlotte Pike: "It's hard/calming the beatle inside of me") e allo stesso tempo il gusto divertito di scrivere brani lunghissimi di grande qualità, nel tentativo di fare come in Inghilterra. Il grande merito dei quattro è quello di aver composto un disco audace ma tutto sommato godibile, prolisso e allo stesso tempo scorrevole, dove una prova strumentale mai ostentata si sposa meravigliosamente con la capacità dei quattro di individuare melodie azzeccate, armonie interessanti, la capacità di reinventare e reinventarsi, risultando forse un po' nostalgici ma di certo non obsoleti.
Un appunto finale: Bridge Across Forever rappresenta la conclusione del primo capitolo dell'epoca Transatlantic, visto che poco tempo dopo Neal Morse abbandonerà baracca e burattini per seguire la sua vocazione religiosa (questa la sua spiegazione, ai tempi). Solo in tempi non sospetti si è fatta strada la voce che un terzo album della ditta Transatlantic è in uscita ad ottobre 2009, chiamato The Whirlwind. L'attesa è quindi conclusa e noi aspettiamo pazienti l'uscita di questo album, dopo la snervante pausa di otto anni. Staremo a vedere.