Johan Edlund - chitarra, voce
Johnny Hagel - basso
Lars Skj�ld - batteria
Magnus Sahlgren - chitarra
Guests:
Waldemar Sorychta - tastiera
Birgit Zacher - voci aggiuntive
1. Wildhoney
2. Whatever That Hurts
3. The Ar
4. 25th Floor
5. Gaia
6. Visionaire
7. Kaleidoscope
8. Do You Dream of Me?
9. Planets
10. A Pocket Size Sun
Wildhoney
Cosa ha spinto, nel corso dei primi anni novanta, tante band del panorama doom, death e black metal a compiere una radicale metamorfosi con esiti tanto strepitosi quanto imprevedibili?
In un lasso di tempo piuttosto breve, nel nord Europa (ma non solo) un pugno di metallari duri e puri ha saputo liberarsi dai ristretti canoni della musica estrema dell’epoca, lasciandosi sedurre dall’elettronica, dalla musica classica, dalla psichedelica e dal folklore. Ognuna di queste band ha avuto un percorso autonomo, che ha generato singoli universi musicali che facevano e fanno dell’evoluzione e della libertà totale di espressione e contaminazione la loro arma vincente. I Moonspell con il loro black/folk, che sfocia nel gothic, e addirittura nell’alternative venato di elettronica, gli Anathema, che dal doom sono approdati ad un alternative rock di gran classe, e via così, con Ulver, Katatonia, Theatre Of Tragedy, Novembre e, naturalmente, Tiamat.
La band del geniale Johan Edlund, nata nei primi anni novanta, suonava death/doom metal. Dopo la pubblicazione di tre album, nel corso dei quali già si avverte uno slittamentodi gusti e tematiche, la svolta avviene con Wildhoney, targato 1994.
Già il fatto che il disco non abbia interruzioni, e vada avanti senza pause per i suoi tre quarti d’ora circa, rappresenta di per sé un passo fondamentale. Da dimenticarsi il concetto di musica in termini canonici; qui ci si trovò di fronte a qualcosa di più complesso e affascinante.
Due gli elementi dominanti a livello contenutistico: la mitologia e le tradizioni dell’antica civiltà mesopotamica (Tiamat è una divinità babilonese, la personificazione delle acque salate), e la natura, vista come elemento misterioso, oscuro, potente, divino. Di qui, a livello sonoro, si assiste da un lato a un rallentamento generale dei ritmi, che assumono un ruolo quasi ritualistico, dall’altro all’inserimento di parti strumentali ed effettistica che richiamano atmosfere al limite del mistico, con testi che rimandano a esperienze oniriche e visioni pregne di lucida follia, come sotto effetto di una potente droga naturale.
“Honey tea, psilocybe larvae
Honeymoon, silver spoon
Psilocybe tea”
Così risuona il grido di Johan Edlund, mente musicale e anima spirituale dei Tiamat, che inizia il viaggio di Wildhoney con la breve e omonima intro, in cui rumori silvestri sono accompagnati da chitarra e tastiera dolci eppure inquietanti, che si rompono all’irruzione di Whatever That Hurts, che rappresenta il capitolo più rappresentativo del platter, assieme alla successiva The Ar, a cui è legata tanto strettamente da essere quasi una sola canzone. Si alternano ritmi doom, lenti, tribali, la batteria che scandisce i passaggi di un rituale, e infusioni acustiche venate di ambient, che vanno a rappresentare una duplicità da possessione, sottolineata anche dalla voce roca di Johan, che passa da toni da rauca preghiera a grida roboanti e devastate. I testi sono tanto complessi quanto affascinati, densi di richiami alchemici, simboli religiosi o magici, il tutto saldamente unito da una propensione a una sorta di disordine mentale, che genera immagini sparse e apparente incoerenti, in cui ricorrono elementi naturali, oggetti comuni mutati e corrotti, e schegge di pensieri allucinati.
E dopo il binomio Whatever That Hurts/The Ar, ecco un’altra breve parentesi musicale dal sapore ambient, 25th Floor, che sembra aprire la porta ad un’altra dimensione. La dimensione si chiama Gaia, l’altro capolavoro di questo album. Sempre ritmi lenti e solenni, e spazio a eteree tastiere ed effetti da coro, che fanno da sottofondo alla voce unica di Johan, che questa volta è meno criptico nel testo, trattando sostanzialmente di come il genere umano stia distruggendo Gaia, Madre Natura, dal cui ventre è stato generato e appartiene, e dalla cui furia sarà, al suo manifestarsi, inghiottito. “When Nature calls we all shall drown”.
L’abilità di costruire pezzi anche sostanzialmente orecchiabili e di creare arrangiamenti raffinati e melodie niente affatto scontate, sarà un elemento importante per il futuro dei Tiamat.
Sempre su questa falsariga la successiva Visionaire, più arrabbiata, con un richiamo al vecchio growl e alle distorsioni del death, proseguendo con Kaleidoscope, altro intermezzo strumentale, che richiama molto Lua d’Inverno dei Moonspell di Wolfheart (altro disco rivoluzionario) per la sua essenzialità di arpeggi, e non è altro che un prologo alla suadente Do You Dream Of Me?, che potrebbe essere definita la ballata dell’album, anche se ai Tiamat sta stretta ogni nomenclatura. Davvero bizzarra la soluzione dell’assolo con cambio di tempo presente a metà del brano, un cambio stilistico inaspettato che spezza un capitolo altrimenti monotono.
Si chiude con Planets, altra immersione, stavolta totale, in campo ambient, e A Pocket Size Sun, forse l’unico passo falso del disco, lento e un po’ scialbo nonostante le divagazioni quasi prog della parte finale. Da sottolineare l’apporto magistrale, in fase di produzione, composizione ed esecuzione, di Waldemar Sorychta, vero e proprio alfiere di rinnovamento, e già fondamentale in dischi come Wolfheart (Moonspell), Mandylion (The Gathering), e via dicendo. Tutto quello che toccava diventava oro.
Dunque, oltre ad essere un disco importante per la storia dei Tiamat, Wildhoney rappresenta un importante tassello in quel mosaico di band “avanzate” che ha rappresentato una piccola rivoluzione nel metal estremo, che ha saputo, grazie a personaggi illuminati come Johan Edlund, ristrutturarsi e reinventare un genere, portando un esempio destinato a durare nel tempo.