- Patrick - voce
- Rickard - chitarra
- Per - chitarra
- Torbjörn - basso
1. Hired To Kill (04:09)
2. Unhallowed Ground (04:49)
3. The Final Relief (04:41)
4. Abusus Ethylicus (04:08)
5. Rise (03:24)
6. 1983 (04:57)
7. The Eternal Holocaust (04:10)
8. Bended Soul (03:59)
9. Return To Dust (04:33)
Return To Dust
Ai tanti esordi di quest’anno in casa No Colours, fra cui vale la pena ricordare il buon Dwelling Lifeless (Sterbend), si aggiunge quello dei Thoron, band nata in Svezia cinque anni fa. I due fondatori del gruppo, Rickard e Torbjörn, provenivano dagli Unmoored, poi abbandonati in favore del nuovo progetto, che inizialmente rappresentava un semplice mezzo per suonare Metal fra amici. Dopo l’arruolamento di Patrik alla voce, Markus dietro le pelli e Per alla chitarra, i Thoron cominciano però a lavorare seriamente, dando alle stampe il primo loro demo (2004). Un secondo lavoro vede luce l’anno successivo e, nonostante l’allontanamento prematuro di Markus, attira l’attenzione della No Colours, la quale non perde tempo e mette sotto contratto il complesso svedese. Return To Dust, primo full length del combo, non è altro che la ristampa del demo datato 2005 con l’aggiunta di tre pezzi, registrati dal gruppo nel maggio 2006.
I Thoron propongono un sound vicino al Death Metal, ma con qualche influsso Black; gli elementi caratteristici dell’album sono propri pertanto dell’uno e dell’altro genere. A primo impatto, però, si ha l’impressione di avere a che fare con qualcosa di trito e ritrito. Sebbene ciò sia ormai all’ordine del giorno in ambiti Death e Black, talvolta si rimane stupiti quanto a potenza, tecnica o emotività. I Thoron, al contrario, non riescono a convincere sotto nessun aspetto, risultando ben presto piatti e ripetitivi. Oltre ad un Death spesso influenzato dal metallo nero, Return To Dust presenta parti cantate abbastanza singolari. Non si tratta di un semplice growling o screaming, bensì di uno stile grezzo, marcio, simile a tratti, per quanto possibile, a quello di Ian Fraiser Kilmister, in arte Lemmy.
Per certi versi, l’album ricorda The Cult Is Alive, ultimo capitolo discografico targato Darkthrone, il quale aveva però una maggiore componente Black e stupì in maniera positiva al tempo della sua uscita, contrariamente a quanto accade con Return To Dust. Le tracce che compongono l’opera hanno tutte una durata abbastanza breve, ma, musicalmente parlando, non si discostano poi molto l’una dall’altra. Ne consegue una discreta ripetitività, che potrebbe quindi facilmente annoiare gli ascoltatori meno preparati. Il problema centrale di Return To Dust è essenzialmente quello di essere un disco confuso, incapace di soddisfare gli appassionati di Death così come gli amanti del Black. Brani relativamente riusciti come The Final Relief, Abusus Ethylicus, Rise o 1983 non riescono a lasciare il segno, mentre sarà persino difficile portare a termine l’ascolto dei capitoli meno azzeccati dell’opera, vedi Hired To Kill, Unhallowed Ground, The Eternal Holocaust e Return To Dust.
In definitiva, Return To Dust risulta noioso, talvolta persino ridondante e fin troppo maniacale in alcune soluzioni strumentali. Se acquistato, il disco, meno diretto di quanto effettivamente si possa pensare, verrà presto abbandonato in favore di un prodotto migliore, e bisogna dire che attualmente non ne mancano.