Voto: 
9.0 / 10
Autore: 
Stefano Puccio
Etichetta: 
EMI Harvest
Anno: 
1970
Line-Up: 

- Glen Sweeney - tablas
- Paul Minns - oboe
- Ursula Smith - violoncello
- Richard Coff - viola

Tracklist: 

1. Air (10:30)
2. Earth (9:53)
3. Fire (9:19)
4. Water (7:04)

Third Ear Band

Third Ear Band

Sul finire degli anni ’60, in un periodo di subbugli sociali e mutamenti culturali, molti giovani musicisti trovarono terreno fertile per esprimersi e convogliare in musica la loro voglia di sperimentare ed evadere dalla realtà.
Il rock psichedelico nasce proprio da questa volontà, sia in Inghilterra che negli Stati Uniti infatti l’underground brulicava di complessi musicali che, ponendo le loro radici nel blues, jazz, folk e nella tradizione musicale orientale rivoluzionarono il modo di intendere il rock.
Su questa scia a Londra nacque nel 1967 la Third Ear Band, all’ombra del famigerato UFO club, fucina di molte band che contribuirono allo sviluppo del genere, ma nonostante ciò, i quattro musicisti del gruppo, Glen Sweeney alle percussioni tabla, Paul Minns all’oboe, Mel Davis al violoncello e Richard Coff alla viola si posero controcorrente non solo per la tipicità degli strumenti impiegati ma anche e soprattutto per l’approccio alla composizione.

Il loro esordio datato 1969 dal titolo Alchemy è l’esempio di come la loro musica fosse all’avanguardia rispetto persino ad una avanguardia stessa, le composizioni, molto più vicine al free jazz che al rock infatti (ancora di più che negli esordi dei Soft Machine) sono lontane dalla tradizionale forma della canzone presentando sonorità insolite ispirate alla cultura celtica ed egizia in un formato piuttosto minimalista (non sarebbero azzardati eventuali paragoni con Terry Riley). E’ però con la loro seconda pubblicazione, l’album omonimo del 1970, che la band partorì il loro capolavoro in senso assoluto nonché uno degli album più importanti, influenti e proporzionalmente misconosciuti di quegli anni.

Third Ear Band (conosciuto anche come Four Elements o più semplicemente Elements), che vede l’avvicendamento di Ursula Smith al violoncello al posto di Davis, rappresenta un’evoluzione dell’esordio verso lidi ancora più estremi: le composizioni, quattro brani della durata di dieci minuti circa ciascuna, hanno una forma se possibile più libera e personale, vengono unite una moltitudine di culture in un'unica orgia musicale senza punti di riferimento. Ciò che prevale è l’astrattismo e l’attitudine “free”, elementi del raga indiano, della musica tradizionale cinese, folk, fusion e richiami tribali sono uniti a formare un’opera unica ed irripetibile che rende vano ogni tentativo di catalogazione, un viaggio attraverso gli elementi della natura dal carattere apoteotico.
L’album è aperto da Air, il fruscio del vento ci introduce ad un gioco astratto di oboe, viola e violoncello che si intrecciano al di sopra di percussioni dal carattere tribale, lo stesso pattern ipnotico e ossessivo accompagnerà l’ascoltatore per l’intero brano (ad alcuni verrà in mente Halleluhwah dei Can) rafforzandosi al trascorrere dei minuti durante i quali si assisterà  ad un’esplosione schizoide degli altri strumenti che indipendentemente l’uno dall’altro tesseranno trame imprevedibili.
A seguire, Earth si apre con un folk cadenzato che richiama danze tradizionali dell’estremo oriente, tale ritmo marziale continuerà per l’intera durata del brano che per l’incedere ricorda Heroin dei Velvet Underground con decise accelerazioni e improvvise frenate. A far da protagonista in divagazioni libere è questa volta esclusivamente l’oboe, a tratti estremamente aggressivo, quasi brutale.
La successiva Fire è probabilmente il brano più caotico tra i quattro, protagoniste sono le dissonanze che scaturiscono da ogni strumento con un ritorno all’ossessivo battere dei tablas, tutti gli strumenti percorrono la propria strada quasi contendendosi l’attenzione dell’ascoltatore, che si troverà quantomeno spaesato. Il risultato è un inquietante trip verso l’elevazione spirituale che si nasconde dietro un’apparente pastone indecifrabile. Solo per stomaci forti.
A concludere questa imponente opera si erge come quiete dopo la tempesta Water. Il pezzo, richiamando il titolo, si apre con il rumore dell’infrangersi di onde in lontananza spezzato poi da brevi incursioni di viola e dall’incombere delle solite percussioni che si ostinano convulsamente sullo stesso ritmo. Quì l’attitudine “free” lascia spazio però ad un accenno di trama melodica ad opera di viola e oboe accompagnati da un cupo violoncello quasi in secondo piano, il tutto in bilico tra il malinconico e il surreale.

Si esaurisce così in appena trentasette minuti uno dei vertici più alti della musica del ‘900. Al di là di ogni convenzione, clichè o stereotipo, un’opera che avrà l’innegabile merito di influenzare movimenti come il progressive rock, il krautrock e in gran parte l’ambient, un’opera troppo importante e da troppi ignorata.

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