- Raymond T.Rohonyi - voce
- Liv Kristine Espences - soprano
- Geir Flikkeid - chitarra
- Tommy Lindal - chitarra
- Eirik T.Saltro - basso
- Hein Frode Hansen - batteria
- Lorentz Aspen - pianoforte, synth
1. Velvet Darkness They Fear (01:05)
2. Fair and 'Guiling Copesmate Death (07:05)
3. Bring Forth Ye Shadow (06:49)
4. Seraphic Deviltry (05:17)
5. And When He Falleth (07:08)
6. Der Tanz der Schatten (05:29)
7. Black as the Devil Painteth (05:26)
8. On Whom the Moon Doth Shine (06:15)
9. The Masquerader and Phoenix (07:35)
Velvet Darkness They Fear
Dopo l’uscita del capolavoro che porta lo stesso nome della band, i norvegesi Theatre Of Tragedy, forti di una vena creativa ancora aperta e fresca, tornano sulla scena l’anno seguente con un nuovo album, Velvet Darkness They Fear. Le coordinate musicali sono le stesse: un sound oscuro e incalzante, con una lentezza tipicamente doom, schiarito e debolmente illuminato dalle tastiere e dall’eterea voce di Liv Kristine, un mix unico per i primi anni ’90 che aveva già molto colpito nell’anno precedente.
In realtà non c’è soluzione di continuità tra lo straordinario debutto e Velvet Darkness They Fear, la linea scura che le atmosfere mortalmente affascinanti del primo lavoro avevano saputo creare prosegue la sua strada in perfetta consecutio con ciò che veniva prima. Per questo i due album possono in realtà essere considerati, anche a causa della prossimità temporale, fratelli quasi gemelli, con differenze riscontrabili solo a livello di produzione, che qui si presenta, nel bene o nel male, decisamente più pulita e senza sbavature, sprovvista di quella patina grigia e opaca che caratterizzava il primo Theatre Of Tragedy.
Non che il risultato ne risenta: Velvet Darkness They Fear non ha niente da invidiare al predecessore: le lunghe tracce che lo compongono grondano di nera eleganza, palpabile fin dai lenti riffs di Fair And Guiling Copesmate Death, in cui le voci di Liv e Raymond, prima lente, quasi solenni, in sintonia con il drumming e il riffing delle chitarre, si presentano in solitudine, ciascuno con la sua carica di emozioni, dal cui contrasto si genera poi l’accelerazione successiva, una silenziosa esplosione in cui le voci dei due singer si intrecciano in modo sublime. Stupendo anche lo stacco di sola tastiera che segue, che di fatto introduce lo strumento nel pezzo, dove assumerà un ruolo sempre più importante, guidando, assieme alla doppiacassa, verso il finale più mantenuto.
Altrettanto lenta, ma più elegante la successiva Bring Forth Ye Shadow, dove spetta ad una chitarra senza distorsione il compito di scostare la tenda sulla voce di Liv, che si muove sinuosa e triste, con grazia decadente, tra il preciso rullare di Hein Frode Hansen.
“Are you a true christian believer?”
“Yes I believe… truly”
Queste le memorabili battute all’inizio di When He Falleth, una disillusa riflessione sulla fede e la religione cristiana, e sulla sua pretesa di laccare d’oro una vita di dolore. Si alternano qui le parti più taglienti e crude di chitarra, ad altre in cui è il piano di Lorentz Aspen a guidare le voci dei cantanti. Siamo ormai entrati nel vivo del disco, che raggiunge l’apice con il dialogo tra una giovane e infiammata credente e un’impassibile figura maschile che spezza la canzone, retto debolmente da arpeggi di chitarra e dai choirs delle tastiere di Aspen, sotto cui si inseriscono via via gli altri strumenti in un crescendo di orgoglio pagano e di amaro, seducente cinismo.
Female Voice: “If you believe....”
Male Voice: “Believe?! If you believe you are...gullible.
Can you look around this world and believe
in the goodness of a god who rules it?
Famine, Pestilence, War, Disease and Death!
They rule this world.”
Female Voice: “There is also love and life and hope.”
Male Voice: ”Very little hope I assure you. No. If a god
of love and life ever did exist...he is long
since dead. Someone...something rules in his
place.”
Anche Der Tanz Der Schatten, scritta in tedesco, si presenta subito come un brano memorabile, un altro classico della band. E’ qui che le atmosfere irresistibilmente sensuali e oscure, piene di orgoglio e grazia, si manifestano con pieno della loro forza. In ogni sua parte, dall’ispiratissima intro di tastiera ad ogni singolo stacco e interazioni tra Raymond e Liv, “La Danza delle Ombre” è un impeccabile manifesto di quello che si comincia già a chiamare gothic metal.
Si continua con il doom macabro di On Whom The Moon Doth Shine, ancora più dicotomica nei suoi giochi di chiari e scuri, di sapore più sinfonico i primi, che si sviluppano in continue variazioni, in cui i vocalizzi di Liv raggiungono l’acme per leggerezza, accompagnate da una tastiera sempre più presente, e si chiude con la lunga The Masquerader And Phoenix, con alcune interessanti novità nella sezione ritmica e nel lavoro delle chitarre della seconda parte, che ricordano moltissimo i primi Moonspell.
Non c’è nessun lato debole in Velvet Darkness They Fear, non una sola discesa sotto il livello dell’eccellenza. In questo sta la sua unicità, assieme al sapere a posteriori che questo è il secondo e l’ultimo album doom/gothic metal della band, che dal successivo Aegis comincerà una parabola di rivoluzione sonora destinata a portarla molto lontano dal sound di coloro che non temono l’oscurità.