Voto: 
6.5 / 10
Autore: 
Gravenimage
Genere: 
Etichetta: 
Sanctuary/Edel
Anno: 
2005
Line-Up: 

- Timo Tolkki - chitarra

- Timo Kotipelto - voce

- Jens Johansson - tastiera

- Lauri Porra - basso

- Jörg Michael - batteria




Tracklist: 

1. Maniac Dance (04:35)

2. Fight!!! (04:03)

3. Just Carry On (05:28)

4. Back To Madness (07:43)

5. Gypsy In Me (04:28)

6. Götterdämmerung (Zenith of Power) (07:13)

7. The Land of Ice and Snow (03:05)

8. Leave The Tribe (05:42)

9. United (07:02)

Stratovarius

Stratovarius

Ecco arrivato l’attesissimo, l’ennesimo, come sempre discusso, nuovo album degli Stratovarius.
Alcune domande arrivano spontanee: un nuovo inizio? Il titolo, omonimo al gruppo, lo vorrebbe far presagire. Basta con la solita minestra di power metal melodico super-catchy riscaldata fino alla nausea? Non proprio.
La verità è che, dopo i non brillantissimi Elements Part I ed Elements Part II, dopo i litigi che sanno tanto di manovra a favore dell’audience, una svolta, a parere di molti, si rendeva necessaria. Che poi si tratti di manovra sincera e spontanea, o dell’ennesima trovata del tipo: “eccoci, siamo tornati, più forti che mai, comprate il nostro nuovo album”, è tutto da definire.

All’ascolto, almeno inizialmente, qualcosa sembra effettivamente cambiato. Il bizzarro incipit elettronico della opener Maniac Dance lascia attoniti, ed ecco che arriva presto un riff di chitarra a sostituirlo, rampante, all’insegna di un hard rock molto orecchiabile, decisamente diverso dallo stile cui la band ci aveva precedentemente abituato. La stessa voce di Kotipelto è cambiata, più roca, più ruffiana e graffiante. La canzone però, pur essendo orecchiabile, non convince, proprio perché si rivela come una voluta, e forzata, ricerca del suono facile e accattivante. La seguente Fight!!! ritorna su binari decisamente più Stratovarius: mid tempos diretti ma funzionali, voce acuta e penetrante, all’insegna del più classico stile power, e risulta sicuramente più convincente. Anche Just carry on ricorda i tempi di Destiny o Visions con il suo coro inneggiante, la chitarra di Tolkki che procede in un discreto stacco e assolo a metà percorso e la batteria di Michael ben cadenzata.

Veniamo ora ad una delle tre canzoni “di lunghezza e spessore” che caratterizzano l’album. Apprezzabile il violoncello d’inizio in questa Back to Madness un po’ meno la voce tenorile che se non altro strappa due risate, quando tremola come se stesse andando in bicicletta sull’acciottolato del Corso. Difficile il giudizio; certo niente di originale: inizio in pianoforte pieno di pathos, accenno di acustica, e poi via con più forza e potenza distorta, ed ancora acustica cullante che accompagna le note acute di Kotipelto. Ricorda molto Season of Change di Episode, ma senza forse quel tocco in più che rendeva la sorella maggiore un pezzo di gran pregio.

Mentre Gipsy in me è un pezzo piuttosto insipido e ripetitivo, decisamente più interessante è l’altra “lunga” dell’album, Götterdëmmerung (Zenith of Power). Non si tratta di una cover dei Rammstein, che peraltro sarebbe stato un esperimento interessante, ma di una strizzata d’occhio addirittura all’epic metal di vecchia scuola. Risuona qui una maestosità marziale sconosciuta prima agli Stratovarius, impressiona il basso marcatissimo; molto richiama, addirittura, ai Manowar. Al di là della sua riuscita o no, si apprezza se non altro lo sforzo di dare un piglio diverso, anche se “riciclato”, al proprio stile. Detto questo Zenith of Power va’ a suonare un po’ pesante e ripetitiva, priva di ispirazione sincera.

The Land of Ice and Snow è una classicissima ballata (stile Forever, per intenderci) tessuta nella trita e ritrita struttura a parabola, tra intrecci di chitarra e vocalizi, che guidano verso un crescendo più sostenuto che a sua volta si interrompe per terminare soavemente. Niente di nuovo, un pezzo tipico, ben confezionato, che dice poco. Stesso discorso vale per Leave the Tribe, che risulta però meno scontata, e la finale United, anch’essa in stile, udite udite, Manowar: il basso cadenzato e ben udibile, a seguire l’innesto di tastiere decisamente funzionale, e il coro finale, danno un carattere decisamente epic alla canzone, che permette all’album di chiudere bene.

Il bilancio definitivo è arduo, e bisogna fare una piccola premessa. Gli Stratovarius non hanno mai plagiato nessuno, se non se stessi, il che non è per forza un male; Tolkki e soci facevano solo quello che gli veniva naturale, e cioè il loro classicissimo power metal melodico, che, se forse peccava di fossilizzazione stilistica, se non altro era ben fatto. Ora, le continue polemiche, la corsa quasi spasmodica all’innovazione forzata: queste sono le cose che hanno spinto il gruppo a tentare altre vie, altre strade, che essendo, in sostanza, percorsi a tappe forzate, hanno minato quello che la band sapeva fare meglio, cioè quello che ha sempre fatto. Per concludere,non è dunque un caso che gli episodi meglio riusciti di Stratovarius siano, direi paradossalmente, quelli che si avvicinano, che anzi ricalcano, il vecchio stile della band, mentre si sente terribilmente come l’inserimento di pezzi innovativi (che poi innovativi non sono, essendo brutte marionette montate con vecchi pezzi di storia metal e hard rock pescati qua e là) sia dettato puramente da un “cerchiamo di accontentare i nostri eterni critici e detrattori”, e certo non da una sincera tensione in “avanti”. In futuro, lasciamo in pace gli Stratovarius; se c’è una sola cosa che gli riesce bene, lasciamogliela fare in santa pace, e forse avremo qualche sorpresa, stavolta davvero in positivo.

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