Voto: 
7.3 / 10
Autore: 
Alessandro Mattedi
Genere: 
Etichetta: 
K7/Audioglobe
Anno: 
2007
Line-Up: 

- Chris James - voce, tastiera, chitarra
- Kidkanevil - programmazione
- Justin Percival - basso, voce
- David Levin - batteria
- Rod Buchanan Dunlop - tastiera, programmazione

Tracklist: 

1. Prism #1
2. Exit
3. Bloodstream
4. This Language
5. Down Here
6. Radiokiller
7. Running Out
8. Crash
9. Bluetrace
10. Inscape

Stateless

Stateless

Gli Stateless sono una delle novità in ambito alternativo di questo 2007 che hanno riscosso più successo fra il pubblico e la critica, anche se non quanto altre uscite del settore come il secondo disco degli Arcade Fire o l’atteso debutto dei Battles (vi rimandiamo alle recensioni già pubblicate su Rockline per informazioni sui suddetti dischi). Il passaparola che si è fatto sull’omonimo esordio degli inglesi è stato molto insistente, al punto che l’aspettativa venutasi a creare per il full-lenght è cresciuta in maniera considerevole nel periodo precedente la pubblicazione del disco, forse troppo: infatti questo omonimo Stateless rischia davvero di diventare la solita, classica "next big thing", quell'album che promette scintille e che invece si rivela molto fumo e poco arrosto. Diciamolo schiettamente, in alcuni casi è stato anche abbastanza sopravvalutato. Non che non sia meritevole, anzi, è un buon disco, ma non questo capolavoro di cui a volte si parla (ma è un procedimento che capita spesso e che rischia troppe volte di compromettere la carriera di gruppi emergenti). Andiamo con ordine.

La formazione di Leeds (città che vi ricorderà nomi come i Kaiser Chiefs) affonda le sue radici nella tradizione pop rock (in buona parte di estrazione inglese, ovviamente) e nel vasto calderone alternative degli ultimi quindici anni, mostrando un buon gusto nel scegliere i loro ispiratori, con nomi di grosso calibro come i Radiohead (riconoscibili sia nella contaminazione musicale che nelle linee vocali di Chris James, leggere e malinconiche in maniera simile alla personale interpretazione di Thom Yorke) o Jeff Buckley; ma si può intravedere fra le influenze principali anche qualcosa della finezza dei The Gathering, in parte qualcosina dei Cooper Temple Clause e dei Porcupine Tree più riflessivi ma soprattutto, bisogna dirlo, un occhio di riguardo verso i Coldplay, il cui ruolo in questo caso è importante.
Gli Stateless trovano anche molti punti di contatto anche con sonorità più vicine all’hip hop per l’effettistica e la sezione ritmica, il che può far venire in mente anche lo stile ibrido dei Gorillaz, ma con atmosfere diverse ed un’attitudine più pacata; forse si potrebbe parlare persino di trip hop data la ricercatezza del suono e il vasto campionario di influenze, ma è più un'influenza di contorno che il nocciolo del frutto. Qualcuno li ha definiti un po’ scherzosamente come Radiohead + Massive Attack + Coldplay, e infatti i punti in comune sono molti e reinterpretati dalla personale visione musicale del gruppo, ancora un po’ acerba e in alcuni punti derivativa ma sulla buona strada per giungere ad una completa maturazione artistica e personalizzazione dello stile.
Il nome che bisogna fare subito è DJ Shadow, sorta di "padrino di battesimo" della formazione di Leeds che influenza e con cui collabora attivamente da tempo: difatti C.J. figura come ospite in due canzoni dell'ultimo disco del produttore e DJ, oltre che nel tour, e questo a sua volta ci riconduce all'influenza hip hop nel disco, soprattutto nel battito della batteria. Aggiungiamo infine qualche lieve spolverata di electro-pop nell'intessitura sonora per completare il tutto. Insomma, un pedigree di tutto rispetto, su cui casca in testa il fatto che il sentore di "già sentito" aleggia dietro l'angolo. Fortunatamente, ciò non risulta mai eccessivo, e molte incertezze potrebbero essere tranquillamente cancellate con un maggior labor limae, che aumenterà esponenzialmente con l'esperienza che il gruppo acquisirà in futuro.

Sotto l'egida di Jim Abbiss, già noto come produttore degli Arctic Monkeys, e dell'etichetta tedesca K7, attiva nel settore elettronico, gli Stateless pubblicano così il loro disco d'esordio. Prism è il pezzo a cui spetta il compito di introdurci nell'album: tenue, con un retrogusto malinconico in quel lento pianoforte ripetuto e nelle semi-nascoste tastiere atmosferiche di sottofondo, in contrasto con la batteria molto più energica; il chorus si inserisce in questo binomio con linee vocali dolci, quasi sognanti. Una canzone scandita dalla contrapposizione fra la salda e decisa sezione ritmica e l'espressiva emozionalità dell'accompagnamento musicale. Davvero niente male come inizio, ma proseguiamo. L'effettistica di sfondo allo scenario di Exit chiama a voce alta i Portishead, mentre l'ottima batteria si avvicina a ritmiche hip hop/trip hop. La voce di Chris James è invece più che mai ispirata al Thom Yorke da metà carriera in avanti e a Chris Martin, tradendo ora in maniera chiara l'influsso delle due formazioni nello stile degli Stateless. Un connubio davvero interessante e piacevole da ascoltare, anche se si avverte minore originalità rispetto a Prism, in ogni caso il disco sembra proprio essersi avviato bene. Con dolci note di piano inizia Bloodstream, alle quali rapidamente si congiunge un impianto ritmico di bristoliana memoria. Il ritornello ricorda leggermente Karma Police dei Radiohead come arrangiamento, mentre così come era iniziata, sempre con note di piano la canzone si conclude, seppur assumendo tinte nostalgiche e a tratti cupe in quei pochi secondi finali. The Language ruota attorno ad un motivo principale consistente in un violino ripetuto, purtroppo alquanto dozzinale ed è un peccato perché l'idea, anche se per niente originale, in teoria promette buone cose. A cantare sembra sempre più che ci sia ora Yorke, ora Martin, ma in alcuni punti si sfiora addirittura il Matthew Bellamy più malinconico; ad attirare maggiormente l'attenzione però è sempre quel violino, di cui forse se ne abusa al punto da farlo diventare troppo ripetitivo. In definitiva non è una delle canzoni migliori, ci sono sempre spunti interessanti ed un grande lavoro dietro le pelli (il batterista David Levin sembra proprio avere un ottimo talento, e si fa notare lungo tutto il platter) ma come traccia convince poco. Ancora un motivo ripetuto in Down Here, questa volta di tastiera melodica. Meno ridondante del precedente violino ma comunque un po' piattino. Il resto della canzone si orienta verso gli stilemi già incontrati fino ad ora, e si continuano ad avvertire sempre di più i Portishead nei samples elettronici di Down Here, in maniera abbastanza netta. Fino ad ora è emerso che l'influenza del trip hop è abbastanza costante negli Stateless, sia per lato ritmico che per effettistico, ma insirerire il disco nel genere può essere improprio, perché si limita ad esserne influenzato e a raccoglierne elementi che vengono uniti al restante bagaglio di influenze. Radiokiller si allontana di netto da tutto ciò, insistendo su di un pop/rock scanzonato e abbastanza orecchiabile. Il ritornello non entusiasma, tocca il britpop peggiore e i pochi spruzzi di elettronica qua e là sono davvero poco incisivi. E' il brano meno riuscito del lotto (anche se potenzialmente una hit radiofonica di discreto successo), segno anche che da un inizio davvero buono si è discesi in una parabola con l'avanzare delle canzoni; ma ciò significa anche che da qui in avanti non si può far altro che migliorare: infatti Running Out convince maggiormente, con arpeggi leggeri ma taglienti di chitarra acustica e tappeti di tastiere che dipingono atmosfere soffuse nelle quali la voce di Chris si adatta alla perfezione. La batteria rende il brano più spedito ma non compromette l'atmosfera, si accosta in maniera non invasiva, oseremmo dire anche complementare, in un gioco di piano e forte che agli Stateless riesce in pieno. Crash è una delle canzoni più belle dell'album: melodica e carismatica, ma anche ricca di atmosfera e delicatezza, e al tempo stesso sicura e decisa. Ricorda un po' i Muse più tenui e melodici, un po' l'evocatività dei Sigur Ròs e, alla lontana e con le dovute proporzioni, il Moby più dolce e gli U2 più nostalgici. Parrebbe meno tranquilla Bluetrace, altro gioiellino: tappeti di tastiere cupe sottostanti una batteria leggera ma dinamica e implacabile rendono il brano quasi inquietante, caratteristica incrementata dal sopraggiungere di un certo elemento hip hop, un'elettronica abrasiva ed un tocco psichedelico che contribuiscono a rendere il brano il più vicino alla corrente del trip hop (si avverte l'apporto di un monumento come Mezzanine dei Massive Attack), forse l'unico definitivamente inquadrabile in una variante del movimento. Il tutto, comunque, lascia presagire una qualche imminente esplosione, come se stessimo ammirando la quiete prima della tempesta, ed infatti quest'esplosione giunge nel finale (e qui la memoria va anche al National Anthem dei Radiohead in una versione relativamente più violenta, soprattutto dopo la precedente traccia), un free jazz feroce e impetuoso, quasi noise e che ti fa trattenere il respiro. Non c'è tempo di riprendere fiato prima della successiva canzone, ma essa stessa ci consente di farlo: Inside ricorda vagamente il pop elettronico denso ed evocativo degli Air miscelato al battito trip hop dalle tinte noir degli Archive. Molto placida e dalle tinte notturne, questa volte si deve parlare di quiete dopo la tempesta. E' davvero ricca di emozione, la sua conclusione tocca il cuore con dolcezza facendo venire quasi dispiacere per il fatto che sia finita, ma più di questo è importante sottolineare lo stato di grazia del gruppo che dopo alcune tracce sottotono non è caduto, per inerzia, in una spirale che avrebbe condotto alla mediocrità, ma si è anzi risollevato e migliorato. Una buona conclusione che non lascia rimpianti, se non per una personalità che poteva essere maggiore (ma si può perdonare, considerando che gli Stateless sono solo al debutto e già sembrano avere già le carte in regola per sopperire a ciò con le prossime pubblicazioni) e per il calo che avviene progressivamente verso metà disco.

In definitiva, un disco che parte bene, si sviluppa male ma che si ridesta e si conclude in maniera ottima: certo, non questa enorme rivelazione di cui si è parlato, ma sicuramente un’uscita buona, ricca di potenziale e che si lascia ascoltare piacevolmente lungo il corso del full-lenght, eccetto che per qualche neo. Nonostante a volte siano stati esaltati eccessivamente, gli Stateless sembrano avere tutto il necessario per crescere nei prossimi dischi e realizzare ottimi lavori, l'obiettivo è quello di slegarsi da degli stilemi predefiniti per avanzare verso qualcosa di maggiormente proprio e questo scopo non è impossibile da raggiungere, soprattutto con tutto il tempo per maturare a disposizione degli inglesi. Da questo punto di vista, il trittico di canzoni finale, il migliore dell'album, ci fa ben sperare. In futuro ricordiamoceli, potrebbero far parlare molto di sè: teniamoli d’occhio, visto che promettono buone cose.

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