Voto: 
6.0 / 10
Autore: 
Edoardo Baldini
Etichetta: 
Inside Out/Audioglobe
Anno: 
2006
Line-Up: 

- Nick D'Virgilio - voce, batteria, percussioni, chitarra, basso, programmazione, tastiera
- Alan Morse - chitarra, voce
- Ryo Okumoto - tastiera, voce
- Dave Meros - basso, voce


Tracklist: 

1. On A Perfect Day (07:47)
2. Skeletons At The Feast (06:33)
3. Is This Love (02:51)
4. All That's Left (04:45)
5. With Your Kiss (11:46)
6. Sometimes They Stay, Sometimes They Go (04:31)
7. The Slow Crash Landing Man (05:47)
8. Wherever You Stand (05:09)
9. Hereafter (05:01)

As Far As The Mind Can See
10. Part 1: Dreaming In The Age Of Answers (04:49)
11. Part 2: Here's A Man (03:28)
12. Part 3: They Know We Know (03:18)
13. Part 4: Stream Of Unconsciousness (05:23)
14. Rearranged (06:07)

Spock's Beard

Spock's Beard

Gli americani Spock’s Beard, anche dopo la dipartita di Neal Morse, avevano abituato il pubblico Progressive internazionale ad uscite valide ed originali, seppur anch’esse figlie di quel sound caratteristico realizzato dall’ex leader che ora ha intrapreso la carriera solista. Il nono album di studio, l’omonimo Spock’s Beard, spiazza leggermente per la forma assunta, non convincendo a pieno come avevano potuto fare i precedenti: certamente la voce di Nick D’Virgilio rimane espressiva e le tastiere di Ryo Okumoto hanno quel sapore e quel fascino progressivo di sempre, ma l’album non si presenta omogeneo e ben strutturato, deludendo alquanto le aspettative.

Se alcuni capitoli di Spock’s Beard potranno costituire delle piccole perle del Progressive Rock, perché memori delle influenze del timbro di The Light o Beware Of Darkness, altre invece appariranno come delle soluzioni troppo azzardate e atipiche per il quartetto americano, quasi votate ad un Hard Rock sporco di Progressive vecchio stile.
Sono questi i momenti in cui l’ascoltatore perde il contatto con il disco, non tanto perché gli Spock’s Beard abbiano variato il loro stile personale, quanto perché non riescono ad esprimersi nella nuova forma assunta.
Esempi veramente da dimenticare sono Is This Love, Sometimes They Stay, Sometimes They Go e Whenever You Stand, pesanti da sopportare e acide nel loro feeling; capitoli decisamente più appassionanti sono l’opener On A Perfect Day o la quarta All That’s Left, distese, riflessive e melodiche. Okumoto non impiega la vasta gamma di suoni degli album precedenti, limitandosi spesso al pianoforte, agli archi o a spunti non eccessivi di elettronica: manca la bellezza degli organi che tanto avevano apportato a capolavori come Beware Of Darkness ma le composizioni riescono a non cedere completamente nei loro sviluppi interni.

Spock’s Beard è molto meno complesso ed elaborato, come si evince quasi dalla copertina scarna e priva dei significati interiori proposti su The Snow o anche sul predecessore Octane. Sembra che la band abbia esaurito le idee e non riesca ad aggiungere niente di sofisticato alla propria produzione discografica. Giunge per tutte le formazioni un momento di calo e sembra che per i quattro americani questo periodo di difficoltà sia arrivato: forse se D’Virgilio e compagni avessero escluso le parti più aggressive e quasi Hard Rock, il risultato finale sarebbe stato differente e non così privo di inventiva. Rimandiamo quindi l’appuntamento con gli Spock’s Beard al decimo full-lenght, che rappresenterà un episodio sicuramente più significativo nella carriera della band e che probabilmente farà porre nel dimenticatoio il disco omonimo concepito troppo frettolosamente.

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