- Björn Strid - voce
- Peter Wichers - chitarra
- Ludvig Svarts - chitarra
- Ola Fink - basso
- Jimmy Persson - batteria
- Carlos Del Olmo Holmberg - tastiere
1. Enter the Angel Diabolique
2. Sadistic Lullabye
3. My Need
4. Skin After Skin
5. Wings of Domain
6. Steelbath Suicide
7. In a Close Encounter
8. Centro de Predominio
9. Razorlives
10. Demon in Veins
11. The Aardvark Trail
Steel Bath Suicide
Gli svedesi Soilwork, nativi di Helsingborg (spesso erroneamente associati alla fervida scena di Gothenburg, ma non senza motivo perché ne sono musicalmente "figli"), sono fra le più popolari formazioni del moderno metal svedese, capitanati da una personalità carismatica e dalle indubbie capacità come quella del cantante Bjorn "Strid" Speed. Emersi in piena New Wave Of Swedish Heavy Metal, mentre alcune formazioni avevano già da tempo iniziato a diversificare il proprio stile adottando influenze via-via più disparate e altre muovevano i primi passi solo in questo momento, il loro primo album risalente al 1998 volge il proprio sguardo a certo passato tinto di metal estremo e si chiama Steel Bath Suicide (a volte si trova scritto attaccato Steelbath Suicide per via di una ristampa del 2000 della Century Media con tale titolo sulla copertina diversa). Viene facile provare a paragonarli ad altri gruppi svedesi debuttanti quello stesso anno, come ad esempio i Carnal Forge che esordiscono con un disco fortemente schizzato, ancor più "duri e grezzi" e meno "eleganti" dei Soilwork, oppure i Gardenian che al contrario tendono a risultare più melodici, anche se meno coinvolgenti; però i Soilwork fra tutte queste formazioni saranno gli unici a sfondare realmente negli anni successivi e a consacrarsi come una delle realtà più significativamente apprezzate del panorama metal svedese e di maggiore popolarità all'estero.
Rimangono comunque influenzati molto dalla scena metal di Gothenburg, in primis dagli At the Gates, a cui andrebbero aggiunti anche gli Arch Enemy ed un pizzico dei primi Dark Tranquillity per un maggiore tecnicismo e in alcuni punti degli In Flames per il gusto melodico (parlando della scena di Stoccolma potremmo aggiungere invece qualcosa alla lontana degli Hypocrisy più martellanti e meno cadenzati). Ad ogni modo i Soilwork si assestano su di un melodic death dalla forte connotazione thrash estremizzata, con su tutti Testament e Slayer come ispirazione (sul versante europeo in particolare Kreator e Destruction) ai quali si aggiungono i primi Machine Head, e magari pure il thrash/death dei Sepultura primi anni '90; il tutto viene impreziosito però da un piglio melodico ed un virtuosismo che si riallacciano all'heavy metal britannico, in particolare dei Judas Priest e dei loro duelli di chitarre - e in questo inoltre torniamo indirettamente di nuovo agli In Flames di metà anni '90 che navigano fra il melodic death di matrice svedese e un heavy reinterpretato e personalizzato -, mentre nascosti si intravedono piccoli riferimenti a certi Death più tecnici, anche se in misura marginale rispetto ad altri gruppi. Il loro stile è però ancora acerbo e da organizzare compositivamente, si sente che gli svedesi sono giovani e in alcuni casi ancora un po' debitori delle loro influenze e gli arrangiamenti suonano in ogni caso molto basati sull'estremismo sonoro (non trovando ad esempio la stessa personalizzazione menzionata due righe fa). Ciò nonostante i Soilwork possiedono ugualmente grande energia ed impatto da vendere, risultando rabbiosi, aggressivi e trascinanti come pochi: il risultato finale è quindi buono e molto promettente per gli sviluppi futuri, una volta acquisita maggiore maturità.
L'iniziale Enter the Angel Diabolique è una miscela esplosiva di melodia, tecnica e furore che ci catapulta immediatamente nel lato più vivace ed incalzante del disco. E' comunque una strumentale, a introdurci la rabbia canora di Bjorn Strid ci pensa invece il death atthegatesiano tinto di groove thrash di Sadistic Lullabye, martellante e furiosa, una mazzata micidiale che non rinuncia però ad aperture melodiche tipiche della Svezia di fine anni '90. My Need punta interamente sulla velocità, che ricorda in particolare certi Dark Tranquillity di The Mind's I in una versione estremizzata, ma anch'essa lascia spazio a refrain melodici, che sono a questo punto una costante di certo metal svedese. Anzi, la melodia si amalgama perfettamente con l'intensità senza stemperarla, e neanche al contrario la pesantezza del gruppo appare come un cumulo di fronzoli che offusca o sbrodola il lato melodico; Skin After Skin è una mazzata micidiale di "violenza catchy", mentre la veloce prestazione di Wings of Domain sa relativamente attenuarsi nel chorus per sprigionare un'atmosfera energica ma oscura. La titletrack Steelbath Suicide prosegue sulle coordinate fino ad ora incontrate rimescolando tutte le influenze alla base del sound dei primi Soilwork, non aggiunge molto a quanto già detto, è semplicemente un ulteriore bel pezzo ricco di carica. Si prosegue ancora su questo passo con In a Close Encounter, ricordandoci che comunque i due chitarristi Wichers e Svartz sanno trascinare come nessun'altro dei gruppi emergenti in questo periodo anche quando c'è minore freschezza nelle composizioni.
Bisogna dire anche che fino ad ora Strid non ha perso vigore, continuando ad urlare a livelli ai quali delle persone comuni si distruggerebbero l'ugola. Nonostante la sua cattiveria, però, le sue linee vocali sono ancora poco versatili e la sua rabbia appare ancora immatura; dovremo aspettare i successivi dischi per vederlo acquisire sempre maggiore flessibilità, espressività e carisma - ma questo lo vedremo in seguito. E' però già da adesso uno screamer di alto livello.
La breve strumentale Centro de Predominio è un'esibizione di tecnica e potenza, si intrecciano miniassoli che si concatenano fra loro e chords di sostegno freneticamente eseguiti, mentre refrain più "lenti" spezzano la tensione per esaltare il lato melodico. Razorlives è un altro brano aggressivo ed incalzante come gli altri, ma offre fra le aperture melodiche più accentuate del disco, soprattutto in corrispondenza dell'assolo. Death in Vain anticipa, forse inconsapevolmente, alcuni tratti dei prossimi Soilwork, con l'introduzione affidata ad uno Strid che, immerso nell'oscurità, parla con un filtro vocale, mentre in sottofondo le piccole tastiere di sottofondo acquisiscono maggiore spazio - una partenza che non stonerebbe con certe soluzioni che il gruppo avrebbe adottato nei successivi anni di carriera. Il resto del brano però è puramente stabilito sui binari del resto del disco, e possiede pure fra i riff e i chorus più esaltanti di tutto il full-lenght. Conclusione affidata a The Aardvark Trail, incrocio di melodia, refrain estremizzati, deathcore/groove e ennesimi riferimenti alla scena di Gothenburg che si lascia ascoltare tutto d'un fiato, seppur come chiusura lasci ancora la sensazione che il disco avrebbe giovato di uno o due pezzi in più.
Davvero un ottimo debutto, ancora un po' grezzo e acerbo ma bello potente, ricchissimo di verve e di impatto. Con questo disco i Soilwork si lasciano notare positivamente, necessitano ancora di diverse rifiniture compositive ed una maggiore personalizzazione ma sono davvero ben avviati verso un traguardo fatto di risultati eccellenti, di cui parleremo in seguito. Fra le formazioni della seconda ondata di melodic death metal sono fra quelli di maggior talento e dalle capacità meglio espresse.