- Lou Gramm - voce
- Vivian Campbell
- chitarra
- Bruce Turgon - basso
- Kevin Valentie - batteria
1. What Would It Take
2. Anytime, Anywhere
3. Once Upon A Time
4. Don't Even Know I'm Alive
5. Boy
6. I Want You
7. This Heart Of Stone
8. Danger In The Dance Of Love
9. No Man's Land
10. Russia
Shadow King
Relegato inspiegabilmente fra i ricordi sbiaditi degli appassionati del genere melodico, il disco di debutto dei fenomenali Shadow King, rappresenta il classico esempio di come a volte si possano commettere degli errori irreparabili se ci si lascia manipolare incoscientemente dalle imperanti leggi di mercato, leggasi pure MTV, che, quasi costantemente, ci impongono i nuovi fenomeni cercando di “valorizzare” di volta in volta l’esplosione delle nuove tendenze musicali del momento.
Un disco dunque che, a quasi tre lustri di distanza dall’uscita ufficiale, brama ancora famelica vendetta, anche perché sia per la qualità del songwriting presente, sia per il carisma dei vari musicisti chiamati in causa per l’occasione, quest’album non può di certo passare inosservato. Infatti, quelli che in pochi ricordano,perché all’epoca sviati da altro, è che i Shadow King erano a tutti gli effetti una big band, che poteva contare sulla forza espressiva e canora di un vecchio marpione come Lou Gramm già con i Foreigner, autore di un paio di dischi solisti di poco richiamo, sul talento chitarristico dell’axe man Vivian Campbell (all’epoca ex Dio, Whitesnake e Riverdogs), e su di una sezione ritmica di tutto rispetto formata dall’ex Warrior e Black Jack Bruce Turgon al basso, e dall’ex Harlow e The Godz Kevin Valentie on the drums. Un solo concerto all’Astoria Theatre di Londra, all’interno del tour itinerante American Dream, promozionato dalla catena di negozi di dischi Shades Store, ed un misero contratto per un disco con la Atlantic, ecco i numeri ufficiali di questa band che, nonostante una sfavillante produzione a cura dello storico Keith Olsen, non seppe imporsi all’audience americana, finendo per essere inghiottita in un vortice cremisi nel giro di qualche mese.
Eppure come detto poc’anzi, la qualità delle composizioni dei nostri, rasentava quasi la perfezione, con la coppia Gramm/ Turgon, vecchi compagni di tante battaglie, sugli scudi, e che, oltre a firmare nove delle dieci composizioni di questo disco, tenta in tutto e per tutto di riportare in auge il sound della band madre, arrivando a volte a commettere un vero e proprio plagio, irrobustendo il proprio songwriting di atmosfere delicate e suadenti, tanto hard melodico e guitar lick veramente vertiginosi, mai prima d’ora si era sentito un Campbell così determinato ed ispirato, che richiamano alla mente le alterazioni arpeggiate del buon Mick Jones, il tutto sormontato degli arrangiamenti, forse un tantino ridondanti, ma sempre espressivi e carichi di pathos, pennellati dall'hammond suonato dallo stesso Turgon. Da parte sua il vecchio Lou tira fuori dal proprio cilindro magico una prestazione maiuscola e d’altri tempi, molto più incisiva e determinante rispetto alle sue opache prestazioni da solista, così che brani della caratura della sfavillante This Heart of Stone, con il suo incedere che si divide fra partiture AOR e reminiscenze molto più pomp/rock, o l’hard cromato e celestiale di What Would it Take, sembrano quasi richiamare alla mente le scorribande sonore dei vari Giuffria, House of Lord, Bad English e degli stessi Foreigner, ed anche quando il pensiero di una band costruita a tavolino, per cercare di raggranellare qualche soldo, si fa sempre più insistente, ci pensa l’hard/pomp di Once upon a Time prima, e le propensioni più melodiche e delicate di Don’t Even Know I’m Alive dopo, a fugare ogni dubbio sulla validità di questo disco.
Un songwriting raffinatissimo contraddistinto da arrangiamenti lineari ed asciutti, ecco gli elementi che fanno capolino su brani della caratura di Boy, class metal song sostenuta da un imperioso wall of sound chitarristico e dalle splendide propensioni molto keys oriented, e Danger in the Dance of Love, dal ritornello molto orecchiabile e dalle atmosfere quasi sensuali, e se il pop/rock, mascherato da AOR, di No Man’s Land, può sembrare roba di normale amministrazione, il gran finale è di totale appannaggio di Russia commovente ballad, delicata e toccante, a tratti veramente da brividi, scritta a quattro mani dalla coppia Campbell/Gramm.
Un disco di questo spessore artistico, che nonostante non venga accolto in maniera calorosa dalla stampa specializzata dell’epoca, funge per il gran ritorno di Lou Gramm, che porta con se Bruce Turgon, in seno ai Foreigner di Mr. Moonlight, mentre se Vivian Campbell viene chiamato dai Def Leppard a sostituire lo storico Steve Clark, Kevin Valantine fa una breve apparizione nei Cinderella del controverso Still Climbing per poi far perdere le tracce di sè. Se questo platter fosse stato pubblicato qualche anno prima, avrebbe sicuramente goduto dei giusti riconoscimenti, ma con i “se” e con i “ma” non si giunge a nessuno conclusione logica, quindi non resta che ripeterci, questo debutto auto intitolato degli Shadow King è sicuramente un album da rivalutare; quindi se lo vedete in giro in qualche mercatino o in qualche negozio dell’usato, fatelo vostro, anche perché sono soldi spesi bene.