- Andrea Kisser - Chitarra
- Igor Cavalera - Batteria
- Derrick Green - Voce
- Paolo Pinto - Basso
1. Intro #4
2. Dark Wood of Error
3. Convicted In Life
4. City of Dis
5. False
6. Fighting On
7. Intro #2
8. Ostia
9. Buried Words
10. Nuclear Seven
11. Repeating the Horror
12. Intro #1
13. Crown and Miter
14. Intro #3
15. Still Flame
Dante XXI
A poco tempo di distanza dal precedente Roorback, ritornano i brasiliani Sepultura con un disco che di per sé rappresenta una sfida sicuramente non facile. Perché, infatti, il gruppo carioca ha deciso per questo platter di puntare veramente in alto, andando a scomodare niente meno che il sommo poeta italiano, ovvero Dante Alighieri. Affascinato dalla Divina Commedia ai tempi dell’università, Derrick Green ha continuato in questi anni ad interessarsi all’argomento, facendo studi di vario tipo e spingendo affinché questo Dante XXI fosse un vero e proprio concept sull’opera massima del poeta fiorentino. Come potete facilmente immaginare, non si tratta di un lavoro semplice ed immediato, tant’è che nessun altro gruppo si è mai avventurato in questo campo. Senza contare che culture distanti come quella statunitense/anglosassone e quella brasiliana probabilmente non sono in grado di cogliere certe sfumature e tanto meno esprimere le atmosfere che scaturiscono dalla lettura della Divina Commedia.
Partendo da questo, si può entrare più nello specifico dal punto di vista musicale. I quattro brasiliani sono riusciti finalmente a distaccarsi da quelle sonorità quasi nu-metal dei loro ultimi album, per ritornare ad un suono più grezzo, più hardcore e vicino al loro background. Ovviamente bisogna una volta per tutte dimenticarci dal passato dei Sepultura: sono passati dieci anni dallo split di Max Cavalera e i tempi di Arise sono lontani anni luce. Però sembra quasi che questa volta i Nostri si siano accorti della “brutta” deriva a cui stavano puntando e si siano decisi a dare una forte sferzata verso lidi più propriamente metal. Purtroppo le idee da qualche anno a questa parte non ci sono più. Ed è un vero peccato. In questo particolare caso il disco parte molto bene per poi perdersi inesorabilmente nel finale. Inoltre la produzione è volutamente sporca e poco incisiva. Sicuramente non un punto a favore.
Dante XXI inizia con la prima delle ben quattro intro che si susseguiranno nel corso del disco: chiamata semplicemente Intro #4, si tratta di una classica cacofonia di registrazioni parlate e distorte (ormai ci siamo abituati a cose di questo tipo). La prima vera canzone non tarda a presentarsi: Dark Wood Of Error è una delle song migliori, formata da riff semplici e diretti, spinti da una linea di batteria in stile hard-core. Solo un pò fuoriluogo la voce di Derrick. A seguire, dopo la breve traccia, ecco che troviamo Convicted In Life, più potente e veloce della precedente, sicuramente una buona song, in parte richiamante alla memoria il passato dei Seps e dove finalmente il cantante afro-americano sembra a suo agio, riuscendo a convincere col suo timbro potente. Elementi leggermente arabeggianti e doppia cassa a mille nella successiva City Of Dis, canzone dalle sonorità alquanto moderne, abbastanza piacevole, ma interrotta da troppe parti un po’ troppo crossover, che cozzano con la composizione nella sua totalità. Si arriva così a quella che forse è in assoluto la traccia migliore del disco: False ricorda particolarmente i tempi di Chaos A.D., quindi tanta potenza, velocità, una certa pesantezza sonora e in generale dei riff che colpiscono positivamente. Il tutto arricchito da alcuni archi e corni, a creare un’atmosfera maligna e sulfurea (a dir la verità abbastanza somiglianti a quelli usati dai Nile in In Their Darkned Shrines).
Diciamo che qui si conclude la parte migliore di Dante XXI. D’ora in avanti infatti l’album perde di coinvolgimento e in alcuni casi si arriva a trovate veramente opinabili. Fighting On si scopre essere una traccia abbastanza noiosa, una specie di mid-tempo pesante, che scorre tra l’anonimato e qualche sbadiglio. Subito dopo troviamo la seconda intro (Intro #2): alcuni archi ed altri strumenti di cui non si riesce ad intuire la natura che intonano continuamente le prime note della successiva Ostia, canzone potente e diciamo accettabile, ma che ci fa letteralmente balzare dalla sedia (o dal sedile della macchina) quando a circa metà fanno la comparsa ulteriori violini e violoncelli, in un intermezzo molto poetico e triste. Ora la domanda sorge spontanea: che cosa centrano con i Sepultura?! Per quanto si possano apprezzare questi elementi, in una canzone come questa rovinano tutto e rimangono alquanto discutibili. Per fortuna si cambia registro quasi immediatamente con Buried Words, song veloce, dai refrain leggermente thrash con un ritornello che si stampa per bene in testa. Non eccezionale, ma gustosa. Con Nuclear Seven, invece, si abbassa un po’ il tiro e fanno capolino, però, sonorità più crossover (in maniera velata e non preponderante). Si ha anche la possibilità di ascoltare uno dei pochissimi assoli presenti nel disco ed in generale si lascia quasi ascoltare, anche se col passare dei minuti diventa piatta e monotona.
Ed ecco che si arriva ad un altro picco di bassezza: Repeating The Horror a tratti ricorda i Korn di qualche anno fa. Strani tempi funkeggianti, voce effettata e accordi cacofononici. Tutto abbastanza penoso. Sicuramente la peggiore di tutto l’album. Ancora archi nella terza intro (Intro #1) dalla durata di qualche secondo, che ci porta poi a Crown and Miter, canzone che si assesta perfettamente nello stile dei Sepultura degli ultimi anni, quindi un insieme di riff pesanti e tempi mai troppo veloci, contornati dalla voce gracchiante di Derrick Green. Di nuovo una breve intro (Intro #3) che ci trascina verso l’ultima traccia, quella Still Flame che lascia completamente allibiti. Si tratta infatti di una strumentale che parte con una specie di canto gregoriano accompagnato da una leggera chitarra di sottofondo, per poi passare ad una intermezzo con archi di vario tipo e batteria (per altro con un trigger degno di Gigi D’Agostino), per poi arricchirsi ulteriormente con un piccolo assolo sempre di chitarra. Forse conclusione peggiore non si poteva scegliere.
Tirando un po’ le somme, si deduce che i Sepultura probabilmente hanno fatto il passo più lungo della gamba, inoltrandosi in un concept un po’ troppo ambizioso. Perché non solo le stesse canzoni non ci fanno gridare al miracolo, ma nel disco manca totalmente una qualsivoglia atmosfera che ci faccia entrare nello spirito dell’oscuro viaggio che è alla base della Divina Commedia. Anzi, sono stati aggiunti degli elementi che alleggeriscono l’ascolto, lo rendono più “soave” e in parte triste, che quindi sono ben lontani dal trasmettere quelle sensazioni sulfuree di claustrofobia che sarebbero necessarie. Se vogliamo comunque lasciar perdere queste considerazioni, la situazione non migliora più di tanto: la produzione non è sicuramente all’altezza di quello che ci si aspetta dalla band carioca. Ci eravamo abituati a suoni taglienti e precisi, invece qui ci troviamo di fronte a chitarre sporche e poco potenti, una batteria troppo profonda, un basso inesistente e una voce quasi sempre distorta. Dal punto di vista compositivo sembra esserci stato un miglioramento: la prima parte dell’album è veramente buona, con tracce che si ricordano e riescono a smuoverci anche un pochino. Ma per il resto, ci sono troppe cadute di stile, troppe introduzioni che spezzano il ritmo e song che rimangono anonime. E per finire, di nuovo, come sempre, la voce di Derrick Green: c’è poco da fare, lui è un cantante hard-core, non avrà mai il timbro giusto per suonare in una band come i Sepultura. Per quanto si impegni e dia prova di ragionare molto sulle sue linee vocali, sembrarà sempre fuori contesto. Finchè non capiranno questo, difficilmente riusciranno a produrre un album grandioso. Quindi, dare la sufficienza non è possibile, ma comunque va premiato quello che di buono si trova in questo Dante XXI.