- Andy Bell – Chitarra, Voce
- Mark Gardener – Voce, Chitarra
- Laurence “Loz” Colbert – Batteria
- Steve Queralt – Basso
1. Seagull
2. Kaleidoscope
3. In A Different Place
4. Polar Bear
5. Dreams Burn Down
6. Decay
7. Paralysed
8. Vapour Trail
Bonus Tracks: [“Fall” EP]
9. Taste
10. Here And Now
11. Nowhere
Nowhere
First you look so strong
Then you fade away
The sun will blind my eyes
I love you anyway
Thirsty for your smile
I watch you for a while
You are a vapour trail
In a deep blue sky
Dubito che i Ride stessero cercando di auto-definire la propria musica, quando inserirono queste righe nel testo di “Vapour Trail”: eppure, è sorprendente come questi otto versi riassumano in maniera straordinariamente efficace le sensazioni evocate dallo Shoegaze, e di conseguenza dal disco che di quel genere è il manifesto – “Nowhere”: inizialmente pieno, vibrante e forte, il suo suono in un istante sfuma in un’onda di nostalgica dolcezza; i sensi rimangono abbagliati, ma è impossibile non amare ciò che si ode: assetati di nuove, rinfrescanti melodie, si torna a sognare quelle vaporose tracce di aria, respiri, vita ondeggianti in un cielo eterno, blu come l’oceano in cui si specchia.
Proprio sui contrasti fra sfibranti muri sonori distorti e la gentile pacatezza del Pop da classifica, sull’abbinamento tra melodie nascoste nell’ombra ed ondate d’abbagliante intensità, sull’alternanza tra zampilli di gioia e stratificate coltri malinconiche, si basa la fortuna di “Nowhere”, debut-album (1990) dei Ride, (allora) giovanissimo quartetto di Oxford che forse meglio di qualsiasi altra band ha saputo portare a compimento il sound Shoegaze.
Preceduto dalla pubblicazione ravvicinata di tre clamorosi EP (ovvero “Ride”, “Play” e “Fall”, contenenti numerosi classici del gruppo) che mandarono letteralmente in visibilio i critici musicali d’oltremanica, “Nowhere” è stato uno dei primi album a portare a definitiva maturazione un suono che discendeva dalle distorsioni Noise Pop dei The Jesus and Mary Chain e dalle composizioni sognanti dei My Bloody Valentine di “Isn’t Anything”: il tutto è guarnito dalla tendenza tipicamente British di costruire le songs basandosi su melodie che appaghino l’orecchio, anche se bisogna tenere presente come i Ride sapessero mantenere una discreta verve e una buona efficacia sonora, rendendoli una delle band meno legate alle intuizioni prettamente Dream Pop dei Cocteau Twins, band che invece sarà fondamentale influenza per altri esponenti dello Shoegaze, quali Slowdive o Lush.
A fare la differenza, infatti, rispetto alle bands dichiaratamente Pop che infoltivano le schiere degli shoegazers, è la sezione ritmica dei Ride, corposa e robusta, con il vigoroso basso di Steve Queralt e la scattante, intelligente batteria di Loz Colbert a dare nerbo e fantasia alle composizioni nei tratti più rumorosi, mantenendo al contempo intatta la capacità di non disturbare la voce melodiosa, delicata ed evanescente di Mark Gardener, ideale veicolo espressivo per permettere alle armonie più sognanti e piacevoli di emergere dal caos controllato delle sei-corde, in realtà vere protagoniste del lavoro.
Se i Ride di “Nowhere” rappresentavano il volto ‘Rock’ della scena inglese, era proprio per merito delle narcotizzanti chitarre di Andy Bell e dello stesso Gardener, sempre pronte a lanciarsi in sviolinate acide e a catapultare sull’ascoltatore una massa nebbiosa di feedback, riverberi e riffs che profumassero nitidamente di purezza e sincerità, sia nei momenti più distesi (come nella dolce “A Different Place”, che carezza l’ascoltatore con sapienti intuizioni melodiche) che in quelli più ruvidi: fra questi spicca l’opener “Seagull”, brano dotato di un ‘wall of sound’ scrosciante, massiccio ed abrasivo, con i due chitarristi a sguazzare felici tra wah-wah ed effetti vari.
Scovato il suono ideale per un intero movimento, i Ride sfornano otto brani di assoluto livello, inoltre completati ed impreziositi dall’aggiunta a fine disco dell’EP “Fall”, uscito un mese in anticipo rispetto a “Nowhere” e caratterizzato da sonorità e qualità pressoché identiche a quelle del disco vero e proprio: ma se è vero che tutto l’album si mantiene su livelli assolutamente degni delle più sperticate lodi, è altrettanto vero che “Nowhere” nasconde le proprie perle più pregiate nel tratto finale, a cominciare dalla tambureggiante ed amarissima “Decay”, impregnata di negatività così come di chiaroscuri assolutamente fascinosi; a seguire, l’ipnotica “Paralysed” è introdotta da onirici arpeggi acustici e da un catartico senso di stasi che sembrano portare avanti la malinconia del brano precedente, ma la doppia identità del brano in settima posizione viene a rivelarsi durante il bridge, in cui Gardener scatena un feeling luminoso, da Indie-Pop d’autore, con le sue melodie vocali. A dare il bacio d’addio è la conclusiva “Vapour Trail”, sintesi perfetta delle capacità dei ragazzi inglesi: tutto è al posto giusto, dal mélange fra speranza e introspezione, alle chitarre fumose e psichedeliche, dal tema principale, gentile e cullante, al finale arrangiato dagli archi, per la creazione di un capitolo che diverrà simbolo della produzione dei Ride, ideale vessillo del loro periodo da shoegazers.
“Nowhere” è da annoverarsi come uno dei dischi più ispirati usciti da quella scena musicale che agli inizi degli anni ’90, tra Londra e il Tamigi, raccolse il meglio delle produzioni Shoegaze: ancora adesso, il disco di debutto dei Ride rimane non solo uno dei capolavori del genere, ma anche una delle pubblicazioni più indicate per addentrarsi in quel mondo fatto di nuvolosità chitarristiche e tenerezze vocali, grazie alla notevole accessibilità del suo suono ed alla superba ispirazione che grazia sia le composizioni che le prestazioni di tutti i membri del gruppo.
Peccato solamente che l’involontaria abilità descrittiva dei Ride non fosse limitata alla sognante prosa di “Vapour Trail”, ma si rivelasse tristemente profetica anche in “Decay”, incredibilmente adatta a descrivere la sorte che sarebbe toccata non solo a gran parte degli shoegazers, ma anche agli stessi Ride, la cui stella era destinata ad eclissarsi di lì ad un lustro...
We have short time to stay
Our night is slipping far away
Caught up within bad memories
Our growth seems certain to decay
[…] Why do we always fall so fast?