- Anthony Kiedis - Voce
- Flea - Basso, Tromba
- John Frusciante - Chitarra, Cori
- Chad Smith - Batteria
Guests:
- Emily Kokal, Natalie Baber, Mylissa Hoffman, Alexis Izenstark, Spencer Izenstark, Dylan Lerner, Kyle Lerner, Gabrielle Mosbe, Monique Mosbe, Sophia Mosbe, Isabella Shmelev, Landen Starman, Wyatt Starkman - Cori
- Michael Bolger - Trombone
- Paulino De Costa, Lenny Castro - Percussioni
- Brad Warnaar - Corno Francese
- Omar Rodriguez-Lopez [dei Mars Volta] - Assolo di Chitarra in Especially in Michigan
- Richard Dodd - Violoncello
- Billy Preston - clavinette in Warlocks
* JUPITER:
1. Dani California
2. Snow (Hey Oh)
3. Charlie
4. Stadium Arcadium
5. Hump de Bump
6. She’s Only 18
7. Slow Cheetah
8. Torture me
9. Strip my Mind
10. Especially in Michigan
11. Warlocks
12. C’mon Girl
13. Wet Sand
14. Hey
* MARS:
1. Desecration Smile
2. Tell me Baby
3. Hard to Concentrate
4. 21st Century
5. She Looks to me
6. Readymade
7. If
8. Make you Feel Better
9. Animal Bar
10. So Much I
11. Storm in a Teacup
12. We Believe
13. Turn it Again
14. Death of a Martian
Stadium Arcadium
Storia recente del gruppo californiano: dopo aver rilasciato uno strepitoso disco di Rock fresco e accattivante (1999, Californication) capace di unire vecchi fans e nuovi adepti provenienti dalla MTV-Generation, il gruppo si sbilancia in direzione commerciale con la pubblicazione successiva (By The Way, 2002) forse la peggiore della loro carriera. A seguire, un obiettivamente inutile Greatest Hits e un DVD (Live in Hyde Park) per cavalcare l’onda del successo, ed eccoci in questo 2006, in cui il gruppo si tuffa nuovamente nella mischia con nientemeno che un doppio album, 2 ore di musica in 28 canzoni divise equamente tra i due cd -intitolati rispettivamente Jupiter e Mars: è il loro nono disco, “Stadium Arcadium”.
L’ultima volta che il gruppo aveva avuto una simile mole di ispirazione è stato all’epoca del loro indiscusso capolavoro BloodSugarSexMagik (1991), in cui però la Warner aveva (saggiamente?) imposto al gruppo di limitarsi a un cd solo: solo 17 canzoni vennero scelte in quell’occasione, e parecchie ottime B-sides vennero sparse fra EPs, singoli e raccolte varie; e anche stavolta pare che l’etichetta abbia voluto mettere becco nelle scelte artistiche dei RHCP (pare che i peperoncini ne volessero pubblicare 3, di dischi, in rapida successione… lascio a voi i commenti), e nonostante questo, ci ritroviamo fra le mani un mattone dal costo esorbitante (si arriva fino a 25 € per la versione normale, e quella limitata con DVDs allegati l’ho vista in negozio a più di 60...).
E’ oggettivo che i Peppers siano un gruppo in una fase discendente della loro (oltre ventennale) carriera, e non desta sorpresa il fatto che in questo nuovo cd nemmeno la metà delle canzoni sia degna del nome riportato in copertina; tuttavia, questo “colpo di coda” dei Red Hot non è nemmeno completamente a vuoto, e anzi ripropone un gruppo spesso ispirato, capace di coinvolgere e presentare diverse soluzioni interessanti.
Rimasta costante la deriva Pop, si nota come nuovamente sia il chitarrista John Frusciante a influenzare (sebbene in maniera ridotta rispetto al disco precedente) più di tutti il suono del gruppo, e, al posto di metterne in mostra le doti, paradossalmente questo fatto mette in mostra le debolezze di John a livello sia tecnico che compositivo.
Per fortuna in diversi pezzi (ovvero, quando decidono di non ammosciarsi troppo...) ci pensano il funambolico Flea alle 4 corde e il buon Chad Smith dietro le pelli a tenere alto il livello qualitativo: il primo in particolare torna ogni tanto a prendersi gli spazi che erano suoi di diritto, e a inserire qualche fraseggio che sorregge o nasconde le confuse o semplicistiche divagazioni del suo guitarist.
Nota a parte merita il cantato di Anthony Kiedis, diventato terribilmente femmineo e stucchevole rispetto al passato, e incapace di dare quel taglio istrionico, carismatico e tagliente che negli anni ha sempre costituito uno dei punti di forza del gruppo: la sua voce insomma ha perso un po’ di lustro nelle parti più aggressive, ma nelle ballate mantiene intatto il suo fascino.
Stadium Arcadium – CD 1 – Jupiter
Le migliori: “Dani California”, “Stadium Arcadium”, “Torture Me”, “Wet Sand”, “Hump de Bump”.
Le peggiori: “Charlie”, “She’s only 18”, “Hey”.
Il primo cd parte con il singolo di lancio “Dani California”, nelle cui strofe si cerca un ritorno alle sonorità di “Californication”, mentre durante il refrain si sviluppa un’inaspettata potenza hard rock, che rende questa sezione della song molto orecchiabile senza renderla eccessivamente zuccherina; sorprendentemente è buono anche l’assolo “sporco” e vagamente hendrixiano di John che chiude: d’accordo, niente di nuovo sotto il sole, ma perlomeno ritornano un po’ di quei feedback “caserecci” che erano linfa vitale nelle prime incarnazioni dei peperoncini.
E non preoccupatevi se il bieco Pop (quel Funk è solo un travestimento, purtroppo) di “Charlie”, in bilico tra il mieloso e l’infantile, vi risulta rivoltante: per fortuna il disco ha anche momenti più interessanti, quali la quarta “Stadium Arcadium”, una splendida ballata, tra le migliori del disco, sulla falsariga di “Otherside”, o la quinta “Hump de Bump”, in cui il Funk dei peperoncini è finalmente sincero, divertente e giocoso, come il basso di Flea, che ci ipnotizza con veloci accelerazioni o ci prende in giro con le sue potenti pulsazioni: da notare come sia molto buono il risultato ottenuto a livello di sound – d’altra parte, il nome di Rick Rubin è una garanzia.
“She’s Only 18”, sottotono, è l’unico passo falso di questa fase centrale del cd: molto meglio la ballata “Slow Cheetah”, in cui si nota un miglioramento rispetto ai lenti di “By The Way”: godibili le parti atmosferiche arpeggiate e piacevole il refrain estremamente catchy - ennesima conferma del trend che vuole i Peppers (oramai superata la soglia dei quarant’anni) molto più a loro agio sulle ballads che non sui pezzi in cui devono mostrare i denti.
Unica smentita, di quanto appena sostenuto, è la successiva “Torture Me”, nella cui introduzione Flea torna a brillare, prima da solista e poi dando la possibilità al riff veloce di John di svilupparsi in tutta la sua potenza (le indecisioni atmosferiche sono finalmente gettate alle ortiche!). Buone anche le vocals, che pure alte (siamo lontani dai classici scioglilingua Rap), danno carica al brano: il refrain perde un po’ in compattezza, ma non voglio cercare il pelo nell’uovo in un pezzo che riporta i Peppers sugli scudi: perfette le parti di fiati che fanno ripartire la canzone, notevole lo stacco rilassato dopo i due minuti, soddisfacente sentire Anthony tornare a sfogarsi con qualche “urlaccio” dei suoi – in breve, sicuramente il brano più interessante per l’ascoltatore dal background Rock.
E se “Strip My Mind” con quei cori iniziali sembra quasi un Gospel in versione Rock, “Especially in Michigan” ha un attacco per il quale gli U2 potrebbero gridare al plagio: ma entrambi i pezzi si fanno ascoltare più che piacevolmente (specie il secondo, che cresce parecchio con gli ascolti), prima di introdurre la bella “Warlocks”, in cui il Funk strambo delle strofe e il Rock melodico del ritornello si incastrano con risultati che finalmente tornano a essere più che positivi.
Prima di chiudere con la scialba “Hey”, che tenta di riprendere il sound del disco “Californication” (non saltate di gioia, il refrain è meno adrenalinico di una camomilla, e l’assolo è quasi imbarazzante...), c’è per fortuna la bellissima “Wet Sand” (sì, anche questa è una ballata, oramai è inutile dirlo...), che va a ripescare atmosfere alla “I Could Have Lied”, e le aggiorna al nuovo millennio regalandoci più di un brivido, anche durante l’assolo di John, scarso a livello di fantasia ma egualmente coinvolgente grazie al pathos e al climax che tutti gli strumenti vanno a creare.
Voto: 72
Stadium Arcadium – CD 2 – Mars
Le migliori: “Desecration Smile”, “21st Century”, “Make You Feel Better”, “So Much I”.
Le peggiori: “Concentrate”, “If”, “Animal Bar”, “We Believe”, “Storm in a Teacup”.
Rinfrancati dalla bontà del primo dischetto, inseriamo fiduciosi il secondo nel lettore: e qui la delusione è abbastanza cocente, in quanto ci dobbiamo sorbire un cd con pochi pezzi a salvarsi da una mediocrità generale in cui si cerca (peraltro fallendo, il più delle volte) di “riscaldare la minestrina”, cibo pessimo dopo i gustosi primi piatti di ‘Jupiter’.
Andiamo comunque a vedere quanto di buono ha da offrirci Marte: nonostante sia stata stroncata più o meno dappertutto, continuo a rimanere convinto della bontà dell’opener “Desecration Smile”, con sonorità quasi Folk, una traccia dark e introspettiva, che si lascia molto andare durante il particolare ritornello – uno dei migliori episodi dell’intero cd.
Se “Tell Me Baby” convince (senza brillare, ma convince), grazie al chorus estremamente orecchiabile ed easy, “Hard to Concentrate” si rivela un pastone di percussioni e chitarre acustiche quasi latine, distorsioni tra l’Ambient e il Post-Rock, e una voce senza spunti: brano che, durante il suo sviluppo, raggiunge anche punte di sdolcinatezza mai nemmeno sfiorate prima dai Peppers. E’ la prima delle tante bocciature.
A risollevare il tutto arriva “21st Century”, che senza essere niente di sconvolgente, perlomeno propone una melodia meno scontata del solito: debole nelle strofe ma azzeccatissima nel ritornello, gode anche di una prova maiuscola del signor Michael Balzary al basso, vero trascinatore del gruppo nei suoi momenti migliori.
Proseguiamo, a fatica: anonima “She Looks to Me”, molto più carina “Readymade” [ancora Flea a tenere alte le sorti del gruppo], incredibile, in senso negativo, “If”: brano che non inizia mai e continua a rimandare il momento in cui una canzone deve evolversi e prendere il volo – e dire che, come introduzione ad un altro brano, non sarebbe nemmeno male, ma tirata così per le lunghe, senza un perché, risulta solamente noiosa. Dopo la ricaduta, i Peppers si rialzano prontamente con “Make You Feel Better”, brano quasi Punk (un po’ statico Smith, ma l’importante è l’efficacia – preferisco invece glissare sull’interpretazione impacciata di Frusciante), con un ritornello che, opportunamente rivisto in ottica più commerciabile, renderebbe stars milionarie parecchie di quelle bands Pop-Punk che tentano di sbarcare il lunario pur non avendo un minimo di classe, dote che invece i Red Hot hanno nel loro DNA, ma di cui sembrano però dimenticarsi, da qui alla fine del disco.
Quello che ci ritroviamo di fronte, infatti, è una sequela di pezzi l’uno più insulso dell’altro, per cui perdonatemi se evito descrizioni accurate di “cose” quali l’improbabile Post-Rock di “Animal Bar” o la riproposizione con altro titolo [“Storm in a Teacup”] ma in versione peggiorata, della titletrack del cd precedente, “By The Way”. Sola eccezione, guarda caso, è l’unica song in cui Flea si carica tutti quanti sulle spalle con un’interpretazione indiavolata (perlomeno durante le strofe, il bridge è meno intrigante), “So Much I”, con un altro refrain di quelli facili facili ma che inevitabilmente finiscono per catturarti.
Voto: 44
Stadium Arcadium è un disco che consiglio solo a chi è già un fan irriducibile della band (chi non li conosce [?] parta dai loro vecchi capolavori), magari facendoselo prestare da un amico per una sessione di ‘ascolto preventivo’ prima di spenderci i (non pochi) soldi richiesti dal negoziante.
Nel 2006, i quattro losangelini non sono più gli stessi ‘freaks’ di vent’anni fa, e non sono più in grado di tracciare una parte fondamentale di quella “linea del Rock” di cui sono stati artisti e maestri indiscussi in passato – sono una band che definirei “esperta”, che gioca con sapienza le proprie carte, dando sempre un’occhiata alle charts ma senza badarci più di tanto: che a portare avanti il Rock siano le nuove leve, Anthony e Flea si divertono così, a disegnare sulla wet sand della loro amata California, anche nel 21st century, i loro sogni personali: e se “we believe”, ci dicono… beh, in loro ci crediamo anche noi.
I Peppers sono ancora qui, e tutti coloro i quali con la loro musica ci sono cresciuti non possono trattenere un sorriso nostalgico: per loro i cari, vecchi Red Hot rimangono insostituibili, che suonino Funk, Hardcore, Pop, Rap, Metal o che mescolino tutto assieme come da loro trademark – di questi ’freaks’ ne sentiremmo certamente la mancanza, teniamoceli stretti.
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